martedì 22 dicembre 2009
TWIN PEAKS(eide)
di Paolo Pecere (tratto da Il caffè illustrato)
1. È forse una tendenza solo affettiva, legata alle circostanze del particolare ambiente in cui si vive, quella di considerare importanti dei fenomeni culturali del passato, per esempio delle opere, che si considerano d’altra parte scadenti. Si tratta di un attaccamento indiretto a esperienze tipiche di un’età e come tali irripetibili, o anche solo alla possibilità di quelle esperienze, alla loro potenzialità che magari non si è affatto dispiegata. Talvolta, forse, la simpatia amara per certe opere – canzoni, film, statuette di un folklore divenuto patacca – è legata proprio a quel rimpianto per certi versi inevitabile con cui si rievoca il mondo in cui quelle opere si sono incontrate. Come se, riafferrando i versi triviali di un ritornello o la battuta involontariamente comica di un personaggio, si potesse riscattare almeno in parte la potenzialità di quelle ore, la sua apertura indeterminata. Guardando l’opera si mira a tutt’altro, tanto che l’opera risulta al limite superflua, e come l’oggetto di un’ossessione può apparire agli occhi di un terzo privo di connessione alcuna con la passione dell’ossessionato, così si può supporre che quest’esperienza risulti ermeticamente contenuta in un ambiente generazionale, e con essa l’opera sia destinata a cadere come un frutto secco e, quale nastro ammutolito negli archivi, ritornare prossima alla polvere.
Questo pare essere il caso del telefilm Twin Peaks. Non solo, benché se ne riconosca il valore di modello per tante fiction della televisione satellitare, il fascino di quel modello risulta difficile a spiegarsi al di fuori di un gergo e di una condivisione presupposta. C’è di più: ora che ricompare nei palinsesti notturni, e le prime puntate circolano in cofanetto, ci si rende conto che quasi nessuno tra gli appassionati ricorda come – e dopo quanti episodi – andasse a finire. Resta insomma solo l’immagine monca di un inizio, i cui sviluppi si fanno sbiaditi e infine frammentari. È forse un monumento ad anni in cui le principali forme di cultura popolare – come la canzone, la soap opera, il fumetto – tendevano alla serialità, alla ripetizione entro una cornice identica, e l’interesse per la vicenda che si genera e si conclude, per lo sviluppo diacronico, restava prerogativa di esperienze per lo più scolastiche o di sforzi individuali conclusi nella sfera privata. O forse soltanto un’espressione debole dell’industria culturale, di una particolare industria dell’intrattenimento giovanile abile a giocare tra le maglie larghe di entusiasmi acritici, quasi garantiti da un supporto fisiologico; un prodotto appena animato da alcune scelte originali, ma il cui effetto era forse destinato a estinguersi di colpo come il suono di uno strumento soffiato con troppa violenza.
Tuttavia non è affatto strano, né riduttivo nel senso appena visto, che di Twin Peaks ci si ricordi come di un’entità aperta, di una qualità emotiva più che di una storia, come tale esemplare e significativa. Non solo perché, passando di mano tra diversi registi e sceneggiatori, la storia si rigenerava ininterrottamente: smagliandosi sempre di più, mettendo alla prova il concetto stesso di colpo di scena, perdendo mordente via via che tiepide se non imbarazzanti verità venivano a sostituirsi all’attesa compulsiva e indefinibile che incastrava lo spettatore tra l’uno e l’altro dei primi episodi. Il punto è che proprio quell’esordio di Lynch, come esordio, incompiuto e chiaramente inconsapevole dei propri sviluppi, portava i tratti di un fenomeno nuovo, e li portava con il marchio dell’evento originale cui seguiranno le tante copie: un’opera, certo sbiadita da un peculiare filtro ironico e da trovate che ne vanificavano la serietà, ma non ancora il mero esemplare di una serie. Così che la vicenda di Twin Peaks, piuttosto che risolversi nell’accattivante mistero di una provincia americana – non si sa in che misura immaginaria e in che misura solo americana –, ed evocare solo eventuali risonanze biografiche, si potrà considerare l’immagine di una condizione culturale. Un’immagine aperta a innumerevoli ispezioni e non ridotta alla ripetizione di se stessa e dei suoi esplicitabili espedienti, quali possono essere una formula, un format, un trucco di prestigiatore (ammesso che anche tali asciuttissimi modelli di performance non possano guadagnare sempre un respiro e uno spiraglio di creativa indeterminatezza). È insomma come il volto dimenticato che serve da modello a tanti ricordi, e viene poi magari riprodotto e ridotto innumerevoli volte in ritratti più schematici: il che distingue l’apertura essenziale di Twin Peaks dalla chiusura delle fiction successive, concluse nelle puntate dei loro cofanetti.
Ma allora, prescindendo dall’intreccio destinato a smagliarsi, come funzionava quell’esordio? Nelle prime sequenze si assisteva a una successione di pianti isterici, o sinceramente commossi, di grida e lacrime versate per la morte di una bella ragazza di cui non si sapeva nulla. Mentre i dettagli latitavano, si assisteva ancora all’incontro tra l’amica del cuore di Laura e il ragazzo segreto della stessa defunta, un motociclista slavato chiamato James. I due, smarriti e vuoti, improvvisamente si baciavano, e immediatamente nasceva un nuovo amore. In Twin Peaks, l’emozione precedeva a distanza di sicurezza la coscienza delle sue ragioni. Era un luogo sinestetico di puri affetti, mutevoli però in modo improvviso, come se, a dispetto dei risaputi e risibili complotti intorno a droga e denaro, il destino di una vicenda capricciosa e superiore governasse gli abitanti del paesino.
Tutti sembravano disorientati, a Twin Peaks, ma moltissimi parevano avere presentimenti o veri e propri poteri telepatici. Era un paese di anime sonnambule, capaci di superare agevolmente certi ostacoli del mondo fisico, ma a tutta evidenza incarnate con disagio, quasi sempre rinchiuse in abitudini minime o rapporti psicotici, al riparo da una realtà che trascendesse un’ambiente limitatissimo di cose e persone. Nascoste a se stesse. Il mistero della brava ragazza che in realtà era una pervertita, così, non era nulla di fronte al mistero di quella piccola comunità isolata, che sembrava detenere nello stesso tempo un rapporto privilegiato e visionario con l’aldilà e, quasi a esorcizzarne la vertigine, la sapienza perduta di una buona vita mondana, scandita dal lavoro, dalla messa, dalla degustazione di caffè e ciambelle al cioccolato. Se ne accorgeva subito l’agente Cooper, venuto da fuori, che sapeva interpretare l’approccio giusto a Twin Peaks, quello sensitivo: la telepatia e il sogno scandivano i veri progressi nelle sue indagini, rendendo pura pellicola accessoria tutti gli intrighi circostanti; mentre un analogo processo sensibile, la consumazione massiva di caffè e dolciumi vari, aiutava a confortare la vita razionale. L’adeguazione alle asperità del caso d’omicidio e del luogo sinistro era immediata, innaturalmente facile, priva di sforzi riflessivi e di ripensamenti drammatici: vitto e alloggio erano «appropriati». Il tutto coniugato ai buoni rapporti sociali da un sorriso automatico bonario, quasi inumano.
Uno spettatore che non avvertisse il fascino subliminale delle impressioni visive, acustiche e addirittura gustative di Twin Peaks potrebbe ritrovarsi di fronte semplicemente a una sequenza farraginosa di eventi, interpretati da personaggi piatti, epidermicamente volubili. Né si potrebbe dire, a chi giungendovi ora non riuscisse a trovarci altro, che le cose non stiano affatto così. Peraltro, Twin Peaks contiene un’esemplare, archetipica galleria di volti incapaci di espressioni autentiche: un miracolo di casting e forse di direzione, perfettamente strumentale all’assenza di veri e propri eroi nella storia. La commozione e la simpatia che si possono avvertire per i tanti personaggi non sono mai integre, prive di un particolare distacco, che l’atmosfera del film produce attraverso una formula ancora da definirsi. È questo – non il ben poco satanico diario di Laura Palmer con i suoi enigmi – il vero e proprio segreto di Twin Peaks, che vale la pena di indagare. È anche, forse, la vera attrattiva estetica dell’opera, per così dire, come suggerisce una sommaria rassegna delle caratteristiche tipiche su cui si basa la buona riuscita di una fiction. Così, per esempio, ad attrarre non era la personalità dei protagonisti, nemmeno quella mera familiarità – quasi un rispecchiamento e una solidarietà basati sulla condivisione di esperienze quotidiane e al limite mediocri – che spesso rende passabili delle fiction molto mediocri. L’agente Cooper, senza dubbio, era generoso di sentenze da ripetere, ma la sua saggezza era adatta all’ora di ricreazione e poco più («Ahhhhh. Non c’è nulla come una tazza di caffè nero per iniziare la giornata!»). La sua affabilità e la sua capacità di esorcizzare le passioni negative, poiché incomprensibili, incuriosivano. Ma tutto si risolveva in questa tenuta superficiale, mentre ripetendo le sue massime sul buon vivere ci si ritrovava a fissare una tazza di caffè lungo con quello che, al di fuori dei confini di Twin Peaks, non poteva che essere uno sguardo ebete. E Cooper, pure, con la sua mania di raccontare in un registratore portatile tutto quel che gli accade, a beneficio di una misteriosa assistente Diane, era tra le personalità più sfaccettate. Tra gli altri dominavano comportamenti automatici; viziosità e bontà intangibili come quelle di figure allegoriche – angeliche o diaboliche; passioni assolute e improvvisi scatti d’umore, se non grotteschi tic: e con l’andare avanti della storia (complice forse lo stesso, arbitrario prolungamento dell’intreccio), quando ci si rendeva conto che quelle passioni erano anche mutevoli come le inclinazioni di un filo d’erba, la diffusa, scarsa riflessività dei cittadini, che all’inizio affascinava come uno strabismo alieno, cominciava a sembrare idiozia.
Non c’era nemmeno una partecipazione immediata alle vicende commoventi o conturbanti, come si è accennato: ma la cosa non dipendeva dalla cattiva riuscita dell’opera. Infatti, a fare da pendant al tema lirico di Angelo Badalamenti, che ancora stringe il petto a chi si ritrovi colpito dalla memoria delle prima visione – miraggio di un televisorino d’altri tempi appollaiato per la prima volta su una lavatrice in cucina -, c’erano motivi e motivetti swing, talvolta apertamente comici, a sottolineare le tante scene leggere ed improbabili in cui ci si rendeva conto che il tutto non andava preso sul serio. Non il sonnambulismo kleistiano dei personaggi, già di per sé poco capaci di inquietare. Ma nemmeno le figure rituali di un lutto comunitario e di un crimine inspiegabile, nemmeno le frequenti epifanie di un trascendente tutto neon e nastri letti al contrario.
Ma nemmeno era il divertimento di una fantasia demenziale, tantomeno le risate – pallide e quasi impossibili, pur decisive a modo loro, come si vedrà– a catturare l’attenzione dello spettatore. La consapevolezza rassicurante che fosse un gioco, allora, non era che l’antidoto a un coinvolgimento più impegnativo ma meno diretto, che non riguardava le vicende in senso stretto. È possibile, certo, che tra gli appassionati vi fosse chi vedesse in Twin Peaks un’altra fiction come Dallas e Dynasty, solo più surreale. Tuttavia, l’opera stessa possedeva la potenzialità di un’attrazione più complessa, come si cercherà di mostrare.
Dalla sua iniziale distanza culturale riguardava il suo pubblico non americano, anche quello italiano, di cui si può abbozzare un’immagine non meno stereotipata e insufficiente di quelle del telefilm che lo fronteggiava: giovani cittadini di un’Italia del benessere ma priva dell’entusiasmo aurorale del boom; appassionati di musica leggera, consapevoli però del carattere già in larga misura ripetitivo della musica leggera dell’epoca, la fine degli anni ’80, privi dell’innocenza di chi aveva visto arrivare i Beatles e Jimi Hendrix come fenomeni rivoluzionari. Spesso figli di un’emigrazione interna, spaesati in città prive di memoria orale, adattivamente tolleranti di fronte alla bruttezza delle immagini pubblicitarie, pressoché privi di valori e ideali da contrapporre alla generazione dei padri e anzi alle prese con un clima di disincanto disarmante; empiricamente o almeno teoricamente consapevoli cosa siano la psicosi e l’alienazione domestiche; biologicamente inquieti. Quella distanza degli scenari provinciali e surreali di Twin Peaks, benché questi fossero per certi versi più familiari rispetto alle olimpiche dimore delle altre fiction d’importazione, forse proprio perché erano più familiari, non poteva che essere occupata dal filtro dell’ironia: così, non si potrebbe fare di Twin Peaks un serio manifesto generazionale. Intrigava senza serietà, senza pietà, pur senza confondersi senz’altro con un mero prodotto d’intrattenimento, e anzi mantenendo in retrospettiva l’apparenza di un fenomeno importante. Ma ritorniamo al punto: da dove scaturiva questa apparenza di uno spessore, non risolto nel divertimento, che ne determinava il fascino specifico? Pareva infatti raccontare altro da sé, dai propri intrighi tragicomici, e in ciò divenire appunto coinvolgente. A suo modo, in effetti, quasi a sorpresa, riusciva a superare i confini culturali, e raccontava lo spettatore e la sua esperienza, fino a evocare una peculiare e nascosta pietà: ma dello spettatore per se stesso. In ciò Twin Peaks possedeva l’indulgenza autoreferenziale di un’epica: un’epica per un popolo televisivo internazionale, rivolta a soggetti singolarmente spaesati, a sguardi abituati a sentirsi distaccati da ogni contesto non affettivo, non eroica né tradizionale − postmoderna.
2. Nei primi episodi di Twin Peaks compare spesso la televisione, e invariabilmente i personaggi stanno guardando una soap opera (fittizia) intitolata Invito all’amore. Vediamo spezzoni di scene a tinte forti, totalmente finte, il genere di sottoprodotto della TV occidentale per cui – coincidenza notevole – va pazzo proprio in questi anni il maestro di arti marziali Miyagi di Karate Kid (un saggio che ha imparato a apprezzare la trivialità delle soap). Questa attrazione-compulsione per il mondo inverosimile della fiction compare altrove nel cinema di Lynch, di cui Twin Peaks costituisce lo sfondo epico. È il motivo centrale del suo film forse più riuscito, Mulholland Drive, che proprio come Twin Peaks – vent’anni dopo – nasceva dal numero zero di una prevista serie televisiva. Dalla provincia settentrionale alla Los Angeles di Hollywood, Mulholland Drive compie il tragitto inverso di Twin Peaks: mentre Cooper veniva dalla grande città e infine si innamorava della calma tradizionale e mistica del paesino, la giovane protagonista giunge stavolta dalla provincia, spaesata e inetta, mossa dal sogno di fare l’attrice nella città universale del cinema. Mentre Cooper troverà una qualche armonia tra la percezione chiara dei propri sogni e la regola diurna del distacco garbato, del galateo e del piacere culinario, Betty dovrà soccombere alla passione primaria della gelosia e perdersi nell’apparente caos di un sogno disperato: un sogno tutto subìto. In entrambi i film, delle voci parlano nel sogno al sognatore: per Cooper la voce è inizialmente muta, mentre Laura le sussurra all’orecchio il nome del suo assassino, ma al termine del suo itinerario diviene distinta, con la sua verità in effetti banale («è stato mio padre»). Per Betty, che sogna di essere una grande attrice (cioè di fingere bene, e perciò riscuotere ammirazione), alla fine il canto stesso dell’amore si rivela drammaticamente un playback. «No hay banda», la musica è fittizia, il sogno è una spirale solipsistica, e al di fuori di esso c’è un dolore insopportabile che offusca i sensi.
Ma al di là di queste simmetrie, è evidente che – eliminando l’eccezione di un personaggio pacificato come l’agente Cooper – tanto Betty che i telespettatori di Twin Peaks sono mossi da una comune passione sognata e riguardata nello schermo televisivo: l’invito all’amore della fiction, amore non solo e niente affatto per una persona, ma, mediatamente o immediatamente, per un mondo di passioni assolute, dotate dell’asciuttezza violenta del fotoromanzo, più vivide e meno controverse di quelle dei rapporti reali. Si può dire che quel che l’agente Cooper è, un inverosimile personaggio di fiction, Betty sogna di esserlo davvero (un falso): e il richiamo nei nomi a mitici attori hollywoodiani (il bonario Gary Cooper, Bette Davis, Rita Hayworth – vera e propria identità totemica della Rita di Mulholland Drive) rimarca il fatto che ci si trova di fronte all’immagine di un sogno che un’intera civiltà cinematografica ha fatto, quello di essere come quei personaggi; e con ciò di fronte ad un errore sottile, ma inevitabile come nel meccanismo di un teatro primitivo: confondere l’attore e il personaggio fittizio, tendendo infine a identificarsi con essi. E dunque, ancora, al racconto – più o meno esplicito – del dramma che si nasconde in quello slittamento. Un dramma esemplare di tutto il meccanismo ancestrale della fiction, che il cinema di Lynch nei suoi antipodi mette in scena: dal lutto di una comunità di personaggi per una ragazza davvero comune, al sogno di una ragazza comune di aiutare l’attrice dei propri sogni a ritrovare addirittura se stessa, venendone perciò amata – e avendo ormai alienato ogni valore della propria vita reale sull’altare di questa stessa passione.
Ora, non abbiamo dubbi che gli spettatori/sognatori non ci credano davvero, in questo amore da fotoromanzo (in Twin Peaks, lo leggiamo nello sguardo ironico di Shelley, imprigionata in un rapporto violento, che spegne il video scuotendo la testa e sorridendo amara; ma lo sappiamo anche di Betty, che recitando in sogno il copione per l’audizione – che allude alla storia vera della sua passione omicida – ride della stupidità del testo). E tuttavia, così come altri protagonisti del cinema di Lynch, essi non sanno staccarsi dalla visione di un mondo di passioni ideali che li attrae, e che tanto bene rispecchia il carattere fugace e scriteriato di tante loro passioni reali (fino al punto – nel caso di Betty, ma anche nel romanzo psicotico di Nadine in Twin Peaks, che regredisce all’adolescenza e torna a scuola – da produrre la piena sostituzione paranoica delle percezioni reali con quelle fantastiche). Senza rendersi conto di star rivedendo-riducendo nella superficialità della fiction l’enigmaticità dei propri reali rapporti affettivi, nessuno di loro accenna a una presa di coscienza diretta dei propri travagli.
Ma ci si avvicina così al segreto di Twin Peaks. Credo infatti che un analogo tipo di passione, tale stavolta da coinvolgere lo spettatore reale, costituisca l’attrazione segreta di Twin Peaks. Un piacere dell’autoillusione, a sostegno di una fascinazione radicale per la dimensione emotiva del rapimento brusco e incoerente, che scoraggia ma nello stesso tempo promette sorprese e gioie improvvise, in una dimensione libera da condizionamenti culturali e sociali, finanche dalle barriere fisiche. Ma insieme – segno della presenza di uno spettatore stavolta esterno alla dimensione fittizia -, per trattenere il rischio che tutto questo si sciolga per inconsistenza tra le mani, e si riveli drammaticamente un autoinganno mascherato, viene provocata l’ironia di chi ha familiarità con i meccanismi che muovono i personaggi, li sa artefatti, e in questo trova una superiorità che lo mette a riparo dal rischio, come a distanza di sicurezza: che gli permette di simpatizzare con le performance caricaturali dei personaggi ormai macchiettistici, senza intravedervi più la filigrana dei propri desideri più infantili e puri.
lunedì 14 dicembre 2009
A CHRISTMAS CAROL di Robert Zemeckis
Il perfetto racconto di Natale di Mariuccia Ciotta (Il Manifesto, 3 dicembre 2009)
«Vorrei che qualche filosofo ben nutrito...dal sangue di ghiaccio e dal cuore di acciaio, potesse vedere Oliver Twist gettarsi su quel cibo disgustoso rifiutato dal cane». Così Charles Dickens vede la Londra di metà Ottocento, quella della rivoluzione industriale e della povertà assoluta, delle workhouse, reclusori per orfani e emarginati, fabbriche di lavoro sottopagato dove lo scrittore inglese bambino finì a lucidare scarpe, dopo che suo padre, contabile della marina, venne arrestato per debiti. È forse lì che Dickens immaginò i suoi giustizieri fantasmi che nelle notti di Natale tormentano i signori Scrooge.
Il racconto A Christmas Carol esce nel 1843, cinque anni dopo Oliver Twist, che rinasce col nome di Tim, il piccolo claudicante motore della redenzione dell'avaro Ebenezer dal «sangue di ghiaccio e dal cuore di acciaio». Ed è in questa atmosfera cupa, nella notte londinese, alla vigilia di Natale che Robert Zemeckis materializza lo spirito di Dickens nel film d'animazione che fonde letteratura, teatro, cinema, corpi reali e immaginari e fa volteggiare la macchina da presa in traiettorie impossibili. Lo sguardo circolare avvolge la scena, non più campi contro-campi ma un'immersione totale che il 3D amplifica. Spazio e tempo si riallineano secondo un'altra realtà, e il passare dei fotogrammi non è più la vita in dissoluzione permanente, il cinema come «morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo», ma un al di là assoluto e abitabile, uno stato di eclisse e di coscienza. È il cinema mentale di Eisenstein, che non caso esplorava la metamorfosi disneyana, ne studiava gli effetti e la percezione, i mondi creati a partire dal «vero». Disney applicava la tecnica del rotoscope per ricalcare i movimenti dei suoi personaggi di carta, e Zemeckis ne utilizza una versione aggiornata nel suo A Christmas Carol, la motion capture, un sistema che permette di acquisire la voce e i gesti degli attori attraverso l'applicazione di mille sensori sui corpi e sui volti. Le sembianze mutano, ma l'espressione e la carica emotiva dei protagonisti restano, così Jim Carrey può interpretare non solo Scrooge vecchio, ragazzo e bambino, ma anche i tre spiriti del Natale, passato, presente e futuro. La stessa cosa vale per Gary Oldman nella parte del socio defunto Jacob Marley e dell'angariato contabile Cratchit, e per Bob Hoskins, Robin Wright Penn, tutti, tranne Colin Firth, moltiplicati per due, tre, quattro personaggi di ogni età (purtroppo li sentiremo doppiati nella versione italiana). A questo attore/ibrido, un po' sintetico un po' di carne e ossa, è restituita l'integrità della recitazione, infatti le riprese avvengono senza soluzione di continuità, come su un palcoscenico, e captano ogni gesto e movimento. Poi il computer farà il resto. Una «macchina del tempo», Robert Zemeckis immagina così il testo di Dickens, secondo la sua vocazione al viaggio spazio-temporale (Back to the Future) e inizia la sua avventura nello studio freddo e buio di Ebenezer Scrooge, che per amore ha l'oro, odia il Natale, nega l'elemosina, tiranneggia il suo dipendente, rifiuta l'invito al cenone della vigilia dell'esuberante nipote e se ne torna a casa curvo e cupo sotto i fiocchi di neve. La città proietta ombre inquietanti, il batacchio del portone si anima e brilla nel ghigno del socio morto, il primo a fargli visita, fantasma luminescente e incatenato che gli annuncia le terribili apparizioni. Scenografia e testo, fedelissimi all'originale, dichiarano l'interesse del regista alla storia, che le mette a servizio la tecnica, già sperimentata in Beowulf e in The Polar Express.
Canto di Natale (bellissime le musiche di Alan Silvestri) sprigiona dalle pagine del capolavoro disckensiano la sua carica di orrore e meraviglia, un film spaventoso nell'attesa dei revenant che appaiono testimoni della disumanità dell'uomo, proiettato all'indietro nel tempo mano nella mano con uno spettro-fiammella, una saetta di luce che vola fino al villaggio del piccolo Scrooge, abbandonato in un college, solo ogni 24 dicembre e poi ragazzo innamorato ma che a lei preferì lui, il denaro.
I velocissimi cambi di scena, il punto di vista obliquo e trasversale, la sensazione di precipitare e di essere catapultati tra le stelle in questo semi-mondo (im)materiale ricorda l'esperienza del sogno, vertigine e spaesamento in un paesaggio di creature «senza organi». Il Natale presente è una specie di Santa Claus disneyano, gigante seduto su una montagna di dolci e leccornie, dalla fragorosa risata (come nella celebre Silly Symphony) e il Natale futuro è un'ombra silenziosa dagli artigli scheletrici, la Morte, che nasconde tra le sue vesti due bambini-mostri, lividi simboli di miseria e abbandono. L'avaro di fronte alle visioni lugubri della sua tomba deserta, del disprezzo e del turpe commercio dei suoi abiti «rinasce» nella nuova dimensione del presente, ed è tutto uno scampanellio di festa e di generosità. Il cinico capitalista di Dickens si tramuta nell'altruista che dispensa doni natalizi e spedisce un ragazzo con un tacchino gigante a casa dell'afflitto dipendente...Tim e Scrooge finalmente insieme.
A Christmas Carol è il primo film in motion capture realizzato in partnership con la Disney, con cui la ImageMovers di Zemeckis & soci (sede a Marin County, baia di San Francisco, accanto ai tecno-creativi Coppola, Lucas, Lasseter) ha stretto un accordo, e che nel 1983 aveva realizzato uno stupendo cartoon con Paperon de' Paperoni, personaggio ispirato proprio a Scrooge. Walt non poteva prevedere che i suoi esseri di inchiostro un giorno avrebbero avuto una pelle digitale e una esistenza reale, tanto che Hollywood, dopo aver premiato i film d'animazione con l'Oscar, è ora di fronte a un interrogativo: si può nominare «miglior attore» un essere dell'aldilà e dell'aldiqua? Sospeso tra la superficie sintetica e l'espressione umana, Jim Carrey fa trapelare da ogni immagine le vibrazioni emotive dei personaggi, qualcosa di travolgente che libera il cinema dai vincoli terreni. Anche A Christmas Carol di Zemeckis può competere con il film live e il cartone animato, di entrambi distilla le meraviglie e l'incanto.
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