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lunedì 1 settembre 2008

IL GRIDO di Michelangelo Antonioni



Vito Zagarrio, Messi in scena, Ragusa, Libroitaliano, 1996, pp. 127-128, 132-136.

Il grido è un film mobile, un film in viaggio: verso gli anni ‘60, verso la definizione di una poetica, verso una ridefinizione della condizione e della cultura moderna, verso la società della tecnologia avanzata e del boom. In viaggio attraverso la storia, storia degli anni ‘50 e della nuova società di massa italiana, storia delle costanti forti dell’ideologia, delle rappresentazioni collettive, dei miti culturali ed economici emergenti. Ma viaggio anche attraverso il microcosmo del delta padano, su tutte le strade e con tutti i mezzi possibili, un’autocisterna del nuovo petrolio italiano, o il pulmann che va ad Adria e Goriano. Un film on the road, dunque, in molti sensi: fatto di passaggi, di autostop, di inseguimenti, di motociclette e sidecars, lunghi viaggi in autobus e carretti, corse di motoscafi, peregrinaggi a piedi, lo stesso fiume che sta lì, immobile come una grande strada d’asfalto. Ma anche un film in viaggio, travelling su una strada cominciata anni, o forse ere, prima, ma poco distante, la statale Ferrara-Padova su cui Gino e Giovanna hanno consumato amore e morte in Ossessione. Il grido, dunque, in viaggio verso gli anni ‘60 e oltre, da Ossessione a Professione: reporter, in inglese significativamente The Passenger. Road movie , lo chiama tout-court Withcombe in The New Italian Cinema, uno dei già numerosi libri americani dedicati al cinema italiano.
Non a caso, Il grido è stato il primo film di Antonioni ad essere distribuito in America. Cronaca di un amore e La signora senza camelie sono arrivati solo alla fine degli anni Sessanta. Non a caso, dico, perché Il grido è un film che, oggi, può apparire “americano”, al di là dello stereotipo dei generi. Americano come è americano Wenders, americano come lo è il protagonista di Alice nella città, anche lui viaggiatore perplesso, con una bambina, occhi nuovi su uno strano pianeta in attesa di una nova.
Americano come è americano Ossessione, che Il grido cita espressamente, scena madre con cui il film di Antonioni si misura e si interroga quasi alla maniera di un film saggio.
Ripercorrendo i tragitti culturali, le mappe geografiche e ideologiche del progetto Ossessione, Antonioni riallaccia il romanzo europero alla narrativa americana; il nuovo régard al vecchio mito che Antonioni praticava nelle sue scritture su «Cinema».
L’impressione che si ricava rivedendo Il grido oggi è che Antonioni riesca ad anticipare il dibattito della critica di venti anni, che riesca a leggere Ossessione in chiave non-neorelistica, che ne faccia emergere, forse inconsapevolmente, tutti i lati - la tradizione culturale, il milieu sociale, il background mitologico, l’intervento sul reale storico - che meno fanno parte della nozione di neorealismo così come essa ha preso corpo e forma mitica dopo Rossellini e De Sica-Zavattini. In questo senso, il viaggio de Il grido verso Ossessione è anche un viaggio lontano dal neorealismo fatto scuola, modello, standard. Tanto più perché viene da lontano, viene dalle elaborazioni e suggestioni del ‘43-’48 di Gente del Po, film girato “sull’altra sponda del Po”, ma convergente e complementare, rispetto a Ossessione, sulla stessa riva poetica, sullo stesso spartiacque. Viene dal '54, prima della realizzazione de Le amiche, prima, se si vuole accettare una data convenzionale, della “crisi” del neorealismo. E viene realizzato in piena crisi del movimento e della scuola, in un momento storico estremamente intenso, la metà degli anni Cinquanta, la rifondazione dei partiti come partiti di massa e la nuova consapevolezza del mutato tessuto sociale del paese, gli indizi del boom, l’Ungheria, le tensioni ideologiche de Le ceneri di Gramsci. Da Ossessione a Il grido c’è tutta la storia, messa in atto delle premesse, ascesa e crisi del neorealismo, o meglio di un quindicennio di cinema italiano. E Antonioni ne prende atto, registra nascita e morte - del genere come del genere umano - come una delle silenziose catastrofi di cui sono popolati i suoi film. Catastrofi o epifanie, ne Il grido, sono l’incidente o suicidio come liberazione, come salto nel vuoto di un iperspazio, spazio nuovo della conoscenza e della sensibilità; la manifestazione di piazza contro la nuova pista aerea militare - che contiene e contrappunta il ritorno di Aldo -, Goriano come Comiso, in un’atmosfera postmoderna popolata di sopravvissuti, in un clima da dopoguerra mondiale (seconda o terza?) denso di nebbie padane e di fumi catastrofici; la tensione interna delle sequenze, sempre in ansia, sempre in attesa, di un evento di svolta, alla singola inquadratura o alla sequenza intera.
Ma alle catastrofi, Aldo - e Antonioni - assistono con occhio distaccato, assente, automatico; come da automa, da zombie è l’espressione e il gesto di Aldo poco prima di lasciarsi cadere dalla torre, prima di lasciarsi morire. E la m.d.p. è lo spettatore freddo, l’osservatore distante, non ironico però, ma attento e partecipe, con rispetto se non con affetto.
La m.d.p. de Il grido infatti non è mobile all’eccesso come i personaggi, le situazioni, i capitoli della multitrama del film. In un travel film - viaggio straordinario all’interno di un fazzoletto di terra, all’interno di un manoscritto e di una bottiglia di vetro, viaggio tra piccole stazioni dove il tempo e lo spazio però si dilatano - in un travel film, dicevo, ci sono pochi travelling shots, le mobilità americane dei carrelli, delle gru e dei dolly sono limitate e sobrie. Al loro posto, un’osservazione da lontano, ma accurata, determinata. Non un pedinamento sull’uomo, non uno sbirciare dal buco della serratura alla Zavattini, ma una contemplazione nobile che tutto riporta alle razionalità matematiche di un classicismo rinascimentale. Il ritmo e l’armonia del dramma quotidiano.
Prendiamo le sequenze iniziali, dai titoli di testa al primo interno della casa di Irma; vero e proprio inizio della storia.
Nella forma di ripresa e nel montaggio delle inquadrature c’è un ritmo preciso, da solfeggio musicale: Cl., m.d.p. fissa, pausa, panoramica a destra; C1., m.d.p. fissa, pausa, panoramica a sinistra; C1., campo fisso, panoramica. I personaggi appaiono, la m.d.p. sembra accorgersi di loro un attimo in ritardo, poi li segue in modo quasi spietato, ma solo girandosi sul suo asse, solo voltando la testa. Non si sposta, non si commuove, non si avvicina il piano della m.d.p. e dello spettatore. I personaggi determinano il campo con il loro movimento e non è, viceversa, la macchina. Tranne in pochi casi la m.d.p. è un occhio freddo che registra la realtà. Una realtà, però, volutamente artefatta, volutamente messa in scena.
«Il soggetto de Il grido mi venne in mente guardando un muro» - scrive lapidario Antonioni... - «Londra 1952. Un vicolo cieco. Case di mattoni anneriti. Un paio di persiane dipinte di bianco. Un fanale. Un tubo di grondaia verniciato di rosso, molto lucido. Una motocicletta coperta da un telo, perché piove. Voglio vedere chi passerà da questa strada che ricorda Charlot. Mi basta il primo passante. Voglio un personaggio inglese per questa strada inglese. Aspetto tre ore e mezza. Il buio comincia a disegnare il tradizionale cono di luce del fanale quando me ne vado senza aver visto nessuno. Io credo che questi piccoli fallimenti, questi vuoti, questi aborti di osservazione, siano tutto sommato fruttuosi. Quando ne abbiamo messi insieme un bel po’, non si sa come, non si sa perché, viene fuori una storia. Il soggetto de Il grido - appunto - mi venne in mente guardando un muro».
Nella sequenza iniziale c’è la stessa forma di osservazione, o di aborto di osservazione, personaggi per una strada del Polesine, sotto vuoto e nella nebbia come fosse quella Londra borghese, in attesa di un avvenimento, di una catastrofe. Che può essere una donna che lascia un uomo per un altro uomo; oppure una grande alluvione. Ma le catastrofi sono anche positive, come le morti. «Speriamo - dice un vecchio che si affaccia alla porta di Irma - che anche questa alluvione diventi bella grossa, come quell’altra, che ha portato via un po’ di vecchio e portato un po’ di nuovo».
È la morale apocalittica del vecchio alla porta, registrata anch’essa come fatto quotidiano, in maniera candida e illuminata. Con la naivéte incantata degli occhi di Rosina, o del vecchio-bambino, ed anche con il cinismo disincantato del borghese, dell’illuminista, del tardo rinascimentale.
«Pensate un numero, raddoppiatelo, triplicatelo, elevatelo al quadrato. E cancellatelo. Sono sicuro che potrebbero diventare il nucleo, o almeno il simbolo, di un curioso film umoristico, indicano già uno stile» scrive Antonioni, quando racconta di aver pensato di sceneggiare l'Introduzione alla filosofia matematica di Bertand Russel, libro serissimo, ma ricco di spunti comici. «Il numero due è un’entità metafisica di cui non saremmo mai sicuri che esiste realmente e se l’abbiamo individuata». Affermazione allucinante, dal punto di vista del numero due. Di un numero due protagonista.
Bene, Aldo e il numero due della storia de Il grido. Raddoppiato, triplicato, elevato al quadrato. E poi cancellato. Uno dei numeri possibili, l’operaio dello zuccherificio di Goriano, uno dei mancati protagonisti di Tentato suicidio, poniamo. Un uomo qualunque, preso dalla strada, come nei canoni del neorealismo, ma messo in una condizione ai confini della realtà, come nei capolavori di Road Serling o Richard Matheson.
Questo numero due qualsiasi viene strappato dal suo felice nuovo eden (la babelica torre dello zuccherificio) ed espulso dal paradiso terrestre. Un nuovo ciclo biblico, o mitologico, si apre (sette anni, sette anni con insistenza simbolica, è durato il rapporto con Irma), un pellegrinaggio costellato di tappe di sofferenza e di conoscenza, stazioni di una via crucis popolata di Maddalene, Irma, Virginia, Elvia, Edera, Andreina, Rosina. E poi scompare, cancellato. Cancellato dal proprio malessere, cancellato dal malessere della condizione postmoderna.
Resta il grido finale, un grido che viene anch’esso da lontano, Munch e l’avanguardia, e ritornerà nella cultura degli anni ‘60. Anche soffocato come un lamento, nella cupa nave che approda, nella rada di Deserto rosso.

lunedì 30 giugno 2008

IL DESERTO ROSSO di MICHELANGELO ANTONIONI

GIULIANA (Monica Vitti): Non sta mai fermo. Mai. Mai, mai. Io non riesco a guardare a lungo il mare. Sennò tutto quello che succede a terra non mi interessa più.

CORRADO (Richard Harris): Delle volte mi domando se non sia inutile. La serietà che si mette in un lavoro, voglio dire. Non sembra anche a te ridicolo?

GIULIANA: Mi sembra di avere gli occhi bagnati. Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?

CORRADO: Tu dici "cosa devo guardare?". Io dico "come devo vivere?". E' la stessa cosa.