martedì 23 giugno 2009

IL GRANDE SILENZIO di Philip Groning



Philip Gröning aveva in mente questo film dall'84, si data allora infatti il primo incontro del regista tedesco (originario di Düsseldorf) con il priore generale della Grande Chartreuse, la casa madre dell'ordine dei certosini considerato il più rigido tra le confraternite nella chiesa cattolica. Nessun visitatore né turista è ammesso nel monastero sulle alpi francesi vicino Grenoble e Chambéry, i monaci osservano l'ordine del silenzio, vivono in povertà, dormono in celle, il quotidiano è scandito dalla preghiera e dal lavoro nella negazione di ogni spazio individuale che non sia, appunto, quello delle celle. Nel monastero non ci sono radio e televisione, i fatti del mondo sono comunicati dal priore mentre i monaci tranne che per questioni di lavoro, parlano tra loro attraverso biglietti deposti in una grande scatola. Solo una volta a settimana possono uscire dal monastero per una passeggiata che è lo spazio della parola. I familiari sono ammessi due volte l'anno. Come girare un film in queste condizioni? E soprattutto che tipo di film, che immagini capaci di confrontarsi con un altrove così remoto senza essere invasive o superficiali? L'ordine risale a quasi mille anni fa (lo fondò san Bruno da Cologne nel 1084), non ha mai cambiato regole, i monaci vivono in una specie di non tempo. Dopo vent'anni, e una relazione di fiducia reciproca, Gröning riceve dal priore il permesso di girare, il contratto stabilisce che per almeno sette anni nessuno potrà più entrare con una macchina da presa nel monastero. Nasce così Die Grösse Stille, Il grande silenzio, presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, e in questi giorni anche sugli schermi dell'Infinity festival di Alba nella personale dedicata al regista, che esce ora in sala. Il risultato di un lavoro lunghissimo, Gröning vive cinque mesi nel monastero da solo, il permesso non includeva la troupe, seguendo la stessa modulazione esistenziale dei monaci: il sonno notturno interrotto spesso dalla preghiera, la campana che scandisce i gesti, il lavoro in giardino, i piatti, le faccende, e poi ancora la preghiera, nove momenti intorno ai quali ruota tutta la vita del convento. E la solitudine ma soprattutto il silenzio che è il vero protagonista di questo film i cui «dialoghi» sono i sussurri di preghiera, le campane, il rumore del vento, delle foglie, dei passi ... L'occhio raddoppiato in digitale del regista si introduce tra le mura secolari a inquadrare i monaci, spesso quasi fuggevolmente tra cerimonie, vestizioni, le tuniche tagliate da grandi forbici sui tavoli di legno,la meditazione, le fiammelle delle candele, i libri sacri sfogliati con lentezza. E, ancora, il silenzio che è insieme esclusione dal mondo, una distanza scelta e perseguita con estremismo radicale intorno alla quale si concentra l'interrogativo del regista: cosa spinge a questo? Cosa significa, in che modo tutto questo può condurre a Dio? Domande che diventano anche dello spettatore, Gröning infatti non offre spiegazioni, non è un film su Dio Il grande silenzio, l'orizzonte appartiene a chi guarda (e a cosa crede in quel momento). Il punto di partenza è un po' la stessa idea su cui ha lavorato Alina Marazzi nel suo ultimo Per sempre, indagine sulle suore di clausura, ma spinta ancora più in avanti, senza cercare come fa invece la cineasta milanese alcuna relazione con i protagonisti. Non c'è infatti un solo dialogo coi monaci, se ne rispecchia la vita e le ragioni restano lì, sospese nel rito e nel tempo che per loro è il battito della campana di lavoro/meditazione diventando nelle immagini il flusso delle stagioni e il flusso del cinema. Die Grosse stille è un sorprendente film sul cinema, sulla sua essenza profonda di tempo e durata, e su quel mistero che è la materia stessa di ogni fotogramma e il suo corpo a corpo di potenza con la realtà.

Cristina Piccino, Il Manifesto, 31 marzo 2006