domenica 23 gennaio 2011

Andrè Bazin a proposito di LADRI DI BICICLETTE di Vittorio De Sica

André Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.



La cosa che oggi mi pare più sorprendente nella produzione italiana è che essa sembra dover uscire dall'impasse estetica in cui si poteva credere che la tenesse il «neorealismo». Passata l'esplosione degli anni '46 e '47, si è potuto temere che questa utile e intelligente reazione contro l'estetica italiana della grande messa in scena e, d'altra parte, più in generale, contro l'estetismo tecnico di cui soffriva il cinema di tutto il mondo, non potesse andare oltre l'interesse di una sorta di super-documentario, o di reportage romanzati. Ci si è trovati a constatare che il successo di Roma città aperta, di Paisà o di Sciuscià era inseparabile da una certa congiuntura storica, che esso partecipava del senso stesso della Liberazione e che la loro tecnica era in qualche modo magnificata dal valore rivoluzionario del soggetto. Come certi libri di Malraux o di Hemingway trovano in una sorta di cristallizzazione dello stile giornalistico la forma di racconto più appropriata alla tragedia dell'attualità, così i film di Rossellini o di De Sica dovevano solo ad un accordo accidentale della forma e della materia il fatto di essere delle opere maggiori, dei «capolavori». Ma una volta che la novità e soprattutto il pimento di questa crudezza tecnica hanno esaurito il loro effetto di sorpresa, che ne resta del «neorealismo» italiano, quando deve per forza di cose tornare a soggetti tradizionali: polizieschi, psicologici o anche di costume? Passi ancora per la macchina da presa nelle strade, ma la splendida interpretazione non professionale non si condanna da sola a mano a mano che le rivelazioni vanno ad ingrossare le file delle vedette internazionali? E per generalizzare questo pessimismo estetico: il «realismo» non può avere in arte che una posizione dialettica, e più una reazione che una verità. Resta da integrarlo in seguito all'estetica che sarà, così, venuto a verificare. Gli italiani non erano del resto gli ultimi a dir male del loro «neorealismo». Credo che non ci sia un regista italiano, compresi i più «neorealisti», che non assicuri energicamente che bisogna uscirne.

Così il critico francese si sente preso da scrupoli - tanto più che il famoso neorealismo ha dato ben presto segni visibili di stanchezza. Delle commedie, peraltro abbastanza divertenti, sono venute a smerciare con una visibile facilità la formula di Quattro passi fra le nuvole o di Vivere in pace. Ma la cosa peggiore di tutte è stata la comparsa di una sorta di super-produzione «neorealista» in cui la ricerca della cornice vera, dell'azione di costume, della pittura di un ambiente popolare, degli sfondi «sociali» diventava un luogo comune accademico, a titolo assai più detestabile degli elefanti di Scipione l'Africano. Va da sé infatti che un film «neorealista» può avere tutti i difetti, salvo quello di essere accademico. Così quest'anno, a Venezia, Patto col diavolo di Luigi Chiarini, cupo melodramma d'amore campagnolo, cercava visibilmente di trovare in una storia di conflitto fra pastori e boscaioli un alibi secondo il gusto del momento. Per quanto riuscito da altri punti di vista, In nome della legge, che gli italiani hanno tentato di spingere in avanti a Knokke-le-Zoute, non sfugge affatto agli stessi rimproveri. Si noterà di passaggio, con questi due esempi, che il neorealismo punta molto adesso sul problema rurale, forse per prudenza verso i successi del neorealismo urbano. Alle «città aperte» succedono le campagne chiuse.

Come che sia, le speranze che avevamo riposto nella nuova scuola italiana cominciavano a tendere verso l'inquietudine, se non verso lo scetticismo. Tanto più che l'estetica stessa del neorealismo gli impediva per essenza di ripetersi o di plagiare se stesso, cosa a rigore possibile e a volte addirittura normale in alcuni generi tradizionali (il poliziesco, il western, il film d'atmosfera ecc.). Cominciavamo già a volgerci verso l'Inghilterra, la cui rinascita cinematografica è anch'essa in parte frutto del realismo: quello della scuola documentaristica che, prima e durante la guerra, aveva approfondito le risorse offerte dalle realtà sociali e tecniche. Probabile che un film come Breve incontro sarebbe stato impossibile senza il lavoro decennale di Grierson, Cavalcanti o Rotha. Ma gli inglesi, invece di rompere con la tecnica e la storia del cinema europeo e americano, hanno saputo integrare all'estetismo più raffinato le acquisizioni di un certo realismo. Niente di più costruito, di più concertato, di Breve incontro, niente di meno concepibile senza le risorse più moderne del teatro di posa, senza attori abili e consumati, si può immaginare. Tuttavia pittura più realistica dei costumi e della psicologia inglese? Certo, David Lean non ha guadagnato niente a fare quest'anno una sorta di nuovo Breve incontro: The passionate friends (presentato al festival di Cannes). Ma è la ripetizione del soggetto che si può incriminare, non quella della tecnica che poteva indefinitamente essere riutilizzata.

Mi sono fatto abbastanza l'avvocato del diavolo? Infatti, adesso posso confessarlo, i miei dubbi sul cinema italiano non sono mai andati tanto in là, ma è vero che tutti gli argomenti che ho invocato lo sono stati da delle ottime persone - soprattutto in Italia - e che non sono purtroppo privi di verosimiglianza. È vero che spesso hanno turbato anche me e che ne sottoscrivo più d'uno.

Ma c'è Ladri di biciclette e altri due film che spero verranno presto conosciuti in Francia. Infatti con Ladri di biciclette De Sica ce l'ha fatta a uscire dall'impasse, a giustificare di nuovo tutta l'estetica del neorealismo.

Neorealista, Ladri di biciclette lo è secondo tutti i principi che si possono ricavare dai migliori film italiani dal 1946 ad ora. Intrigo «popolare» e addirittura populista, un incidente della vita quotidiana di un lavoratore. E non uno di quegli avvenimenti straordinari come quelli che succedono agli operai predestinati alla Gabin. Niente delitto passionale o enorme coincidenza poliziesca, che non fanno che trasporre nell'esotismo proletario le grandi dispute tragiche riservate un tempo ai familiari dell'Olimpo. Un incidente davvero insignificante, banale persino: un operaio passa tutto il giorno a ricercare invano a Roma la bicicletta che gli hanno rubato. Questa bicicletta era diventata il suo strumento di lavoro e, se non la trova, tornerà senza dubbio ad essere disoccupato. La sera, dopo ore di corse inutili, cerca anche lui di rubare una bicicletta, ma viene preso, e poi lasciato andare, e si ritrova altrettanto povero, con solo, in più, la vergogna di essersi abbassato al livello del suo ladro.

È evidente che non c'è neppure la materia di un fatto di cronaca: tutta questa storia non meriterebbe neppure due righe nella rubrica dei cani investiti. Bisogna stare attenti a non confonderla con la tragedia realista alla Prévert o alla James Cain, dove il fatto di cronaca iniziale è, in realtà, una vera e propria macchina infernale deposta dagli dei fra le pietre della strada. L'avvenimento non possiede in se stesso alcuna valenza drammatica propria. Prende senso solo in funzione della congiuntura sociale (e non psicologica o estetica) della vittima. Non sarebbe altro che una banale disavventura senza lo spettro della disoccupazione che lo situa nella società italiana del 1948. Ugualmente, la scelta della bicicletta come oggetto chiave del dramma è caratteristica sia dei costumi urbani italiani sia di un'epoca in cui i mezzi di trasporto meccanici sono ancora rari e onerosi. Non insistiamo: cento altri dettagli significativi moltiplicano le anastomosi fra il soggetto e l'attualità, lo situano come un avvenimento della storia politica e sociale, in quel tale luogo e in quel tale anno.

La tecnica della regia soddisfa, anch'essa, alle più rigorose esigenze del neorealismo italiano. Neppure una scena in teatro di posa. Tutto è stato realizzato per la strada. Quanto agli interpreti, non uno di loro aveva la minima esperienza di teatro o di cinema. L'operaio esce dalla Breda, il bambino è stato scoperto per strada fra gli sfaccendati, la donna è una giornalista.

Ecco dunque i dati del problema. È chiaro che essi non sembrano rinnovare in nulla il neorealismo di Quattro passi fra le nuvole, Vivere in pace o Sciuscià. A priori c'erano addirittura piuttosto motivi particolari per diffidare. L'aspetto sordido della storia andava nel senso più contestabile della storia italiana: un certo miserabilismo e la ricerca sistematica del dettaglio sporco.

Se Ladri di biciclette è un puro capolavoro paragonabile per il rigore a Paisà, è per un certo numero di ragioni ben precise che non appaiono mai nel semplice riassunto della storia e neppure nell'esposizione superficiale della tecnica di regia.

La sceneggiatura innanzitutto è di un'abilità diabolica, poiché regola, a partire dall'alibi dell'attualità sociale, più sistemi di coordinate drammatiche che la puntellano in tutti i sensi. Ladri di biciclette è certamente da dieci anni ad oggi il solo film comunista valido, appunto perché conserva un senso anche se si astrae dal suo significato sociale. Il suo messaggio sociale non viene esposto, resta immanente all'avvenimento, ma è chiaro che nessuno può ignorarlo e ancor meno ricusarlo poiché non è mai esplicito come messaggio. La tesi implicata è di una meravigliosa e atroce semplicità: nel mondo in cui vive questo operaio, i poveri, per sussistere, devono derubarsi fra di loro. Ma questa tesi non è mai posta come tale, il concatenamento degli avvenimenti è sempre di una verosimiglianza insieme rigorosa e aneddotica. In fondo, a metà del film, l'operaio potrebbe ritrovare la bicicletta; semplicemente, non ci sarebbe il film. (Scusate il disturbo, direbbe il regista, tuttavia credevamo davvero che non l'avrebbe trovata, ma dato che l'ha trovata va tutto bene, tanto meglio per lui, la serata è finita, si possono riaccendere le luci in sala.) In altri termini un film di propaganda cercherebbe di dimostrarci che l'operaio non può ritrovare la sua bicicletta e che è necessariamente preso nel cerchio infernale della sua povertà. De Sica si limita a mostrarci che l'operaio può non ritrovare la sua bicicletta e che perciò tornerà senza dubbio ad essere disoccupato. Ma come non accorgersi che è il carattere accidentale della sceneggiatura a fare la necessità della tesi laddove il minimo dubbio sulla necessità degli avvenimenti in una sceneggiatura di propaganda renderebbe la tesi ipotetica?

Ma se non possiamo far altro che dedurre dalla disavventura dell'operaio la condanna di un certo modo di rapporti fra l'uomo e il suo lavoro, il film non riduce mai gli avvenimenti e gli esseri a un manicheismo economico e politico. Si guarda dal barare con la realtà, non solo combinando la successione dei fatti in una cronologia accidentale e come aneddotica, ma trattando ognuno di essi nella sua integrità fenomenica. Che il bambino, nel bel mezzo di un inseguimento, abbia bruscamente voglia di fare pipì: fa pipì. Che un acquazzone costringa padre e figlio a rifugiarsi in un portone, ecco che dobbiamo, come loro, rinunciare all'inchiesta per attendere la fine del temporale. Gli avvenimenti non sono nella loro essenza segni di qualcosa, di una verità di cui dovremmo convincerci; essi conservano tutto il loro peso, tutta la loro singolarità, tutta la loro ambiguità di fatto. Sicché se non avete occhi per vedere, potrete attribuire le loro conseguenze alla sfortuna o al caso. Lo stesso per gli esseri. L'operaio è altrettanto sprovvisto e isolato al sindacato che per strada, o anche in quella inenarrabile scena di «quaccheri» cattolici fra i quali capiterà poco dopo, perché il sindacato non è fatto per ritrovare le biciclette ma per modificare il mondo in cui la perdita di una bicicletta condanna l'uomo alla miseria. Del resto, l'operaio non è venuto a lamentarsi «sindacalmente», ma a trovare dei colleghi che potrebbero aiutarlo a ritrovare l'oggetto rubato. Sicché una riunione di proletari sindacalisti non si comporta diversamente da un gruppo di borghesi paternalisti nei confronti di un operaio sfortunato. In questa disavventura privata, l'attacchino è altrettanto solo (a parte i colleghi, che però sono una faccenda privata) al sindacato che in chiesa. Ma questa similitudine è una suprema abilità, poiché fa scoppiare un contrasto. L'indifferenza del sindacato è normale e giustificata, poiché i sindacati lavorano per la giustizia e non per la carità. Ma il paternalismo invadente dei «quaccheri» cattolici è intollerabile, poiché la loro «carità» è cieca di fronte a questa tragedia individuale, senza fare nulla per cambiare veramente il mondo che è in causa. La scena più riuscita da questo punto di vista è quella del temporale sotto gli archi, quando uno stormo di seminaristi austriaci capita attorno all'operaio e a suo figlio. Non abbiamo alcuna ragione valida di rimproverar loro di essere tanto ciarlieri e, per di più, di parlare tedesco. Ma era difficile creare una situazione oggettivamente più anticlericale.

Come si vede - e potrei trovare venti altri esempi - gli avvenimenti e gli esseri non sono mai sollecitati nel senso di una tesi sociale. Ma la tesi ne esce tutta agguerrita e tanto più irrefutabile in quanto non ci viene data che in sovrappiù. È il nostro spirito a ricavarla e a costruirla, non il film. De Sica vince ogni volta sul tableau in cui... non ha puntato.

Questa tecnica non è affatto nuova nei film italiani e abbiamo insistito a lungo sul suo valore, a proposito di Paisà e, più di recente, di Germania anno zero, ma questi due ultimi film si rifacevano ai temi della Resistenza e della guerra. Ladri di biciclette è il primo esempio decisivo della conversione possibile di questo «oggettivismo» a soggetti interscambiabili. De Sica e Zavattini hanno fatto passare il neorealismo dalla Resistenza alla Rivoluzione.

Così la tesi del film si eclissa dietro una realtà sociale perfettamente oggettiva, ma questa, a sua volta, passa in secondo piano rispetto al dramma morale e psicologico che basterebbe da solo a giustificare il film. La trovata del bambino è un colpo di genio di cui non si sa se è in ultima analisi di sceneggiatura o di regia, tanto questa distinzione perde in questo caso di senso. È il bambino a dare all'avventura dell'operaio la sua dimensione etica e a scavare una prospettiva morale individuale in questo dramma che potrebbe essere solo sociale. Toglietelo e la storia resta sostanzialmente identica; la prova la riassumereste nella stessa maniera. Il bambino si limita infatti a seguire il padre trotterellandogli accanto. Ma è il testimone intimo, il coro particolare collegato alla sua tragedia. È supremamente abile aver quasi evitato il ruolo della donna per incarnare il carattere privato del dramma nel bambino. La complicità che si stabilisce tra il padre e il figlio è di una sottigliezza che penetra fino alle radici della vita morale. È l'ammirazione che il bambino in quanto tale ha per il padre e la coscienza che questi ne ha a conferire al finale del film la sua grandezza tragica. La vergogna sociale dell'operaio smascherato e schiaffeggiato in mezzo alla strada non è niente di fronte a quella di aver avuto il figlio a testimone. Quando gli viene la tentazione di rubare la bicicletta, la presenza silenziosa del bambino che indovina il pensiero del padre è di una crudeltà quasi oscena. Se tenta di sbarazzarsene mandandolo a prendere il tram, è come quando si dice al bambino, negli appartamenti troppo piccoli, di andare ad aspettare un'ora sul pianerottolo. Bisogna riandare ai migliori film di Charlot per trovare situazioni di una profondità più sconvolgente nella concisione. Si è spesso mal interpretato a questo proposito il gesto finale del bambino che ridà la mano al padre. Sarebbe indegno del film vedervi una concessione alla sensibilità del pubblico. Se De Sica offre questa soddisfazione agli spettatori è perché essa è nella logica del dramma. Quest'avventura segnerà una tappa decisiva nelle relazioni fra il padre e il bambino, qualcosa come una pubertà. L'uomo, fino a quel momento, era un dio per suo figlio; i loro rapporti sono sotto il segno dell'ammirazione. Il gesto del padre li ha compromessi. Le lacrime che versa camminando fianco a fianco, le braccia penzoloni, sono la disperazione di un paradiso perduto. Ma il bambino torna al padre attraverso la sua decadenza, lo amerà adesso come un uomo, con la sua vergogna. La mano che fa scivolare nella sua non è il segno né del perdono né di una consolazione puerile, ma il gesto più grave che possa segnare i rapporti fra un padre e un figlio: quello che li fa uguali.

Sarebbe senza dubbio lungo enumerare soltanto le molteplici funzioni secondarie del bambino nel film, sia per ciò che riguarda la costruzione della storia che la stessa messa in scena. Bisogna tuttavia far notare almeno il cambiamento di tono (quasi nel senso musicale del termine) che la sua presenza introduce a metà film. II bighellonare fra il bambino e l'operaio ci riporta infatti dal piano sociale ed economico a quello della vita privata, e il falso annegamento del ragazzino, facendo di colpo prendere coscienza al padre della relativa insignificanza della sua disavventura, crea, nel cuore della storia, una sorta di oasi drammatica (la scena della trattoria), oasi naturalmente illusoria, dato che la realtà di questa felicità intima dipende in definitiva da questa famosa bicicletta. Così il bambino costituisce una sorta di riserva drammatica che, a seconda dei casi, serve da contrappunto, da accompagnamento o passa al contrario al primo piano melodico. Questa funzione interna alla storia è del resto perfettamente sensibile nell'orchestrazione della camminata del bambino e dell'uomo. De Sica, prima di decidersi per questo bambino, non gli ha fatto fare delle prove di recitazione, ma solo di camminata. Voleva, accanto alla camminata da lupo dell'uomo, il trotterellare del bambino, essendo l'armonia di questo disaccordo di per sé di un'importanza capitale per l'intelligenza di tutta la messa in scena. Non sarebbe esagerato dire che Ladri di biciclette è la storia della camminata per le strade di Roma di un padre e di suo figlio. Che il bambino stia davanti, dietro, a fianco o, al contrario, come nel broncio dopo lo schiaffo, a una distanza vendicativa, il fatto non è mai insignificante. È al contrario la fenomenologia della storia.

È difficile immaginare data questa riuscita della coppia dell'operaio e del figlio che De Sica potesse ricorrere a degli attori conosciuti.

L'assenza di attori professionisti non è nuova, ma anche in questo Ladri di biciclette supera i film anteriori. Ormai la verginità cinematografica degli interpreti non è più questione di prodezza, di fortuna o di una sorta di felice congiuntura fra il soggetto, l'epoca e il popolo. È addirittura probabile che si sia data un'eccessiva importanza al fattore etnico. Certo, gli italiani sono, con i russi, il popolo più naturalmente teatrale. Un qualsiasi ragazzino di strada vale un Jackie Coogan e la vita quotidiana è una perpetua commedia dell'arte; ma mi sembra difficilmente verosimile che questi doni di commedianti siano ugualmente divisi fra i milanesi, i napoletani e i contadini del Po o i pescatori siciliani. Oltre alle differenze di razza, i contrasti storici, linguistici, economici e sociali basterebbero a compromettere questa tesi, se si volesse attribuire alle sole qualità etniche la naturalezza degli interpreti italiani. È inconcepibile che film così diversi per soggetto, tono, stile, tecnica come Paisà, Ladri di biciclette, La terra trema e persino Cielo sulla palude abbiano in comune questa qualità suprema dell'interpretazione. Si potrebbe ancora ammettere che l'Italia delle città sia più particolarmente dotata per questo istrionismo spontaneo, ma i contadini di Cielo sulla palude sono dei veri uomini delle caverne in confronto agli abitanti di Farrebique. La sola evocazione del film di Rouquier a proposito di quello di Genina basta a relegare - almeno da questo punto di vista - l'esperienza del francese al livello di un toccante tentativo dilettantesco. La metà del dialogo di Farrebique è detta fuori campo perché non si poteva impedire ai contadini di ridere durante le battute un po' lunghe. Genina in Cielo sulla palude, Visconti in La terra trema manovrano decine di contadini o di pescatori, affidando loro ruoli di una complessità psicologica estrema, facendo dire loro testi lunghissimi nel corso di scene in cui la macchina da presa scruta i visi in maniera altrettanto impietosa che in un teatro di posa americano. Ora, sarebbe poco dire che questi attori improvvisati sono buoni o anche perfetti: essi cancellano addirittura l'idea stessa di attori, di recitazione, di personaggio. Cinema senza attori? Senza dubbio! Ma il senso primo della formula è superato, è di un cinema senza interpretazione che bisognerebbe parlare, di un cinema in cui non è più neppure questione che una comparsa reciti più o meno bene, tanto l'uomo si identifica col suo personaggio.

Non ci siamo allontanati, nonostante le apparenze, da Ladri di biciclette. De Sica ha cercato molto a lungo i suoi interpreti e li ha scelti in funzione di caratteri precisi. La naturale nobiltà, quella purezza popolare del volto e del passo... Ha esitato mesi fra l'uno e l'altro, ha proceduto a centinaia di provini prima di decidersi finalmente, in un secondo, per intuito, di fronte alla sagoma incontrata all'angolo di una strada. Ma non c'è nessun miracolo in questo. Non è la singolare eccellenza di questo operaio e di questo bambino a valerci la qualità della loro interpretazione, ma tutto il sistema estetico sul quale sono venuti ad inserirsi. De Sica, in cerca di un produttore, aveva finito per trovarlo a condizione che il personaggio dell'operaio fosse interpretato da Cary Grant. Basta porre il problema in questi termini per farne apparire l'assurdità. Cary Grant, in effetti, è eccellente in questo genere di ruoli, ma è chiaro che in questo caso non si trattava appunto di interpretare un ruolo ma di cancellarne addirittura l'idea. Era necessario che quest'operaio fosse insieme altrettanto perfetto, anonimo e oggettivo della sua bicicletta.

Una tale concezione dell'attore non è meno «artistica» dell'altra. L'interpretazione di questo operaio implica tante doti fisiche, tanta intelligenza, comprensione delle direttive del regista quanto quella di un attore consumato. Fino ad ora i film totalmente o parzialmente senza attori (per esempio Tabu, Qué viva Mexico, La madre) si presentavano piuttosto come delle riuscite eccezionali o limitate a qualche genere preciso. Niente impediva al contrario a De Sica (se non una saggia prudenza) di fare cinquanta film come Ladri di biciclette. Sappiamo ormai che l'assenza di attori professionisti può non apportare alcun limite alla scelta dei soggetti. Il cinema anonimo ha definitivamente conquistato la sua esistenza estetica. Il che non vuole assolutamente dire che il cinema del futuro debba essere senza attori - De Sica per primo lo nega, lui che, peraltro, è uno dei più grandi attori del mondo -, ma semplicemente che certi soggetti trattati in un certo stile non possono più esserlo con degli attori professionisti e che il cinema italiano ha definitivamente imposto queste condizioni di lavoro altrettanto semplicemente degli ambienti veri. È questo passaggio dal tour de force ammirevole, ma forse precario, a una tecnica precisa e infallibile a segnare uno stadio di crescenza decisivo del «neorealismo» italiano.

Alla scomparsa della nozione di attore nella trasparenza di una perfezione apparentemente naturale come la vita stessa, risponde la scomparsa della messa in scena. Intendiamoci: il film di De Sica è stato lungo da preparare e tutto vi è stato minuziosamente previsto come in una super-produzione girata in teatro di posa (il che ha permesso del resto le improvvisazioni dell'ultimo momento), ma non mi ricordo di una sola inquadratura in cui un effetto drammatico nasca dal découpage propriamente detto. Quest'ultimo sembra altrettanto neutro che in un film di Charlot. Eppure, se si analizza il film, vi si scopre un numero e una nomenclatura di inquadrature che non distinguerebbe sensibilmente Ladri di biciclette da un film ordinario. Ma la loro scelta non tende che ad una valorizzazione più limpida dell'avvenimento col minimo indice di rifrangenza da parte dello stile. Questa oggettività è abbastanza diversa da quella di Rossellini in Paisà, ma essa si iscrive nella stessa estetica. La si potrebbe accostare qui a ciò che Gide e soprattutto Martin du Gard dicono della prosa romanzesca, che essa deve tendere alla trasparenza più neutra. Come la scomparsa dell'attore è il risultato di un superamento dello stile dell'interpretazione, la scomparsa della messa in scena è ugualmente il frutto di un progresso dialettico nello stile del racconto. Se l'avvenimento basta a se stesso senza che il regista abbia bisogno di rischiararlo per mezzo delle angolazioni o i partiti presi della macchina da presa, è perché è appunto arrivato a quella perfetta luminosità che consente all'arte di smascherare una natura che finalmente le somiglia. Per questo l'impressione che ci lascia Ladri di biciclette è costantemente quella della verità.

Se la naturalezza suprema, quella sensazione di avvenimenti osservati per caso nel corso delle ore, è il risultato di un sistema estetico presente (anche se invisibile), è in definitiva la concezione preliminare della sceneggiatura ad autorizzarla. Scomparsa dell'attore, scomparsa della messa in scena? Certo, ma perché alla base di Ladri di biciclette vi è prima di tutto la scomparsa della storia.

La parola è equivoca. So bene che c'è una storia, ma la sua natura è diversa da quelle che vediamo di solito sugli schermi; è proprio per questo che De Sica non ha trovato alcun produttore. Quando Roger Leenhardt, con una formula critica profetica, domandava a suo tempo «se il cinema era uno spettacolo», voleva opporre il cinema drammatico a una struttura romanzesca del racconto cinematografico. Il primo prende al teatro le sue risorse nascoste; il suo intreccio, per quanto specificamente concepito per lo schermo, resta l'alibi di un'azione nella sua essenza identica all'azione teatrale classica. A questo titolo, il film è uno spettacolo, come la rappresentazione sul palcoscenico. Ma da un altro lato, per il suo realismo e l'eguaglianza che accorda all'uomo e alla natura, il cinema si apparenta esteticamente al romanzo.

Senza dilungarci su una teoria, del resto sempre contestabile, del romanzo, diciamo grosso modo che il racconto romanzesco, o quello che vi si apparenta, si oppone al teatro per il primato dell'avvenimento sull'azione, della successione sulla causalità, dell'intelligenza sulla volontà. Se si vuole, la congiunzione teatrale è il «dunque», la particella romanzesca «allora». Questa definizione scandalosamente approssimativa ha forse questo di giusto, che caratterizza abbastanza bene i due movimenti di pensiero del lettore e dello spettatore. Proust ci può annientare in una maddalena, ma l'autore drammatico vien meno al suo compito se le sue battute non tendono il nostro interesse verso la battuta successiva. Per questo il romanzo può aprirsi e chiudersi, mentre l'opera teatrale non può essere sezionata. L'unità temporale dello spettacolo fa parte della sua essenza. In quanto realizza le condizioni fisiche dello spettacolo, il cinema non sembra poter sfuggire alle sue leggi psicologiche, ma dispone anche di tutte le risorse del romanzo. Sotto questo aspetto il cinema è congenitalmente ibrido: cela una contraddizione. Ora, è evidente che la direzione progressiva del cinema va nel senso dell'approfondimento delle sue virtualità romanzesche. Non che noi siamo contro il teatro filmato, ma bisogna convenire che se lo schermo può, in certe condizioni, sviluppare e come dispiegare il teatro, è necessariamente a spese di certi valori specificamente scenici e prima di tutto della presenza fisica dell'attore. Al contrario, il romanzo non ha (idealmente almeno) niente da perdere dal cinema. Si può concepire il cinema come un super-romanzo di cui la forma scritta non sarebbe che una versione inferma e provvisoria.

Posto troppo brevemente ciò, che può esserne nelle condizioni attuali dello spettacolo cinematografico? È praticamente impossibile ignorare sullo schermo le esigenze spettacolari e teatrali. Resta da sapere come risolvere la contraddizione.

Constatiamo prima di tutto che il cinema italiano attuale è il solo al mondo ad avere il coraggio di abbandonare deliberatamente gli imperativi spettacolari. La terra trema e Cielo sulla palude sono film senza «azione» il cui svolgimento (di un romanzesco un po' epico) non concede niente alla tensione drammatica. Gli avvenimenti vi sorgono al momento giusto, gli uni dopo gli altri, ma ciascuno di essi vi pesa lo stesso peso. Se certuni sono più carichi di senso è solo a posteriori. Liberi noi di sostituire mentalmente il «dunque» all'«allora». La terra trema soprattutto è, per questo, un film «maledetto», praticamente non sfruttabile nel circuito commerciale se non dopo mutilazioni che lo rendono irriconoscibile.

È il merito di De Sica e di Zavattini. Il loro Ladri di biciclette è costruito come una tragedia, secondo le regole. Non un'immagine che non sia carica di una forza drammatica estrema, ma neppure una alla quale non ci si possa interessare indipendentemente dalla sua successione drammatica. Il film si svolge sul piano dell'accidentale puro: la pioggia, i seminaristi, i quaccheri cattolici, la trattoria... Tutti questi avvenimenti, sembrerebbe, sono interscambiabili, nessuna volontà sembrerebbe organizzarli secondo uno spettro drammatico. La scena nel quartiere dei ladri è significativa. Non siamo neppure più tanto sicuri che il tizio inseguito dall'operaio sia davvero il ladro della bicicletta e non sapremo mai se la sua crisi epilettica sia simulata o vera. In quanto «azione» questo episodio sarebbe un non-senso, poiché non porta da nessuna parte, se il suo interesse romanzesco, il suo valore di fatto non gli restituisse in sovrappiù un senso drammatico.

È infatti al di là e parallelamente che si costituisce l'azione, meno come una tensione che per una «somma» di avvenimenti. Spettacolo se si vuole, e che spettacolo!, Ladri di biciclette però non dipende più in nulla dalla matematica elementare del dramma, l'azione non gli preesiste come un'essenza, essa sgorga dall'esistenza preliminare del racconto, è l'«integrale» della realtà. La riuscita suprema di De Sica, a cui altri non hanno fatto sinora che avvicinarsi più o meno, è di aver saputo trovare la dialettica cinematografica capace di superare la contraddizione dell'azione spettacolare e dell'avvenimento. In ciò, Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell'illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema. (1949)




mercoledì 22 dicembre 2010

TRISTANA di Luis Buñuel (1970)























Edoardo Bruno (Filmcritica, n.210, 1970)

L’inquietudine meticolosa che sorprende ad ogni sequenza di Tristana è il segno di una trasposizione allucinante che Buñuel opera sulla realtà. La stessa severa scansione che delimita il campo entro cui si muovono i personaggi-simbolo, diviene proposta agghiacciante di una vicenda che trasferisce i suoi significati, al di là dei segni apparenti, nel mito di una convinzione metaforica, che ricerca, anche nella definizione del tempo, una atemporalità panica, che inspiegabilmente si spiega. Si avverte subito dalla prima sequenza su Toledo e su Tristana e Saturno che avanzano, l’incrinatura che Buñuel trasferisce sul tessuto fisico, la strutturazione diversa del colore, del suono, dell’immagine e del tempo, che traduce una più esatta visione, sospesa tra allucinazione e realtà. Buñuel procede per parentesi; il suo universo è sempre parte di tutto, è la cittadella impenetrabile entro cui racchiude il silenzio delle sue costanti mediazioni tra sensazioni e visioni, in cui dilata gesti impercettibili a momenti accertati, come ad esempio le azioni tra Tristana e Saturno, dal gioco dei ragazzi, che sulla torre campanaria toccano le sue cosce, sino al turbativo denudamento del seno, eseguito con la composta sacralità di un rito dall’alto del balcone. Il prolungamento esatto dei tempi è sottolineato dal taglio accorciato di talune sequenze, dall’interruzione del sonoro che precede i passaggi di campo (cfr.: la introduzione di Don Lope); dalla visione rapida di alcuni particolari e dal concentrarsi lento di altri raccordi; dai trasalimenti improvvisi di Tristana. Come un’ombra, le mutazioni di carattere – dalle “attonite” sorprese iniziali, alla cruda determinazione finale – sono svelate attraverso una serie di atti consapevoli, “sorpresi” sul viso e sullo sguardo dell’attrice (Catherine Deneuve) e riflessi nella rappresentazione della realtà circostante. La città di Toledo, è vista come memoria trasposta nel tempo, come una serie di interni, dove oggetti e persone si delineano in un vuoto senza aria, senza presenza. Le stradine scoscese, i giardini, le piazze; o gli interni delle chiese, dei caffé, delle case, sono rappresentazioni di stati d’animo, soggettivazioni di una realtà ricordata. Come la stessa sequenza sugli scioperi e la carica della polizia, improvvisa immissione di una stasi violenta, teatro di una situazione, messinscena di un dato reale, inquietante, dimensione ideologica di una “realtà” memorabile. L’incidenza della memoria è un elemento particolare di Buñuel, è una maniera di mutuare dalla fantasia gli stati di una inquietudine che si insinua nelle pieghe della sua costruzione, che prolunga la tensione delle sue messe in parentesi, sino alla conclusione delirante delle visioni oniriche, delle ossessioni improvvise, delle rotture operate sulla superficie del vero. Il rapporto padre-amante, figlia-amante che si conclude nel convenzionale rapporto marito-moglie, determina la situazione apparente dentro la quale, al di là delle convenzionalità narrative, Buñuel rinserra, à rebours, il suo discorso, contro le apparenze, dentro le interiorità stesse della disperazione impietosa. La rispettabilità di Don Lope, il suo ragionamento, le sue contraddizioni, sono il segno del tempo, le caratteristiche portanti di una mentalità metaforica di una intelligenza laica, di una convenzione alla quale appartiene – sia pure come punta avanzata – la stessa Tristana, il femminismo, la necessità di affermare una diversa morale, la liberazione da uno stato di passività sono momenti di una storia borghese, da cui parte la distruttività di Buñuel. Il racconto di Benito Galdòs da cui trae origine il film è, nonostante tutto, il punto di partenza di una “situazione borghese”. Si possono avvertire nelle sue pagine certe smagliature che presentano il tono dissacratore, ma sostanzialmente è difficile operare su due piani, il romanzo appare come un’iniziazione erotica, apparentemente innocente, fatto attraverso interventi diretti – le parole – e interventi riflessi – le lettere – nello stile della migliore tradizione letteraria (Laclos) sino all’inquietante interrogativo finale (Sono felici? Forse) che sospende un giudizio, ma prelude a una possibile lettura, a rovescio, della situazione descritta. Con un’unica eccezione: la presenza continua, inquietante, “surrealistica”, se si vuole, della Costrizione, che attraverso impossibili fili, tiene reclusa nella casa di Don Lope, la intrepida Tristana, prima con legami inavvertiti, poi con la malattia, e quindi con l’amputazione della gamba. Da questa situazione, che Buñuel interrompe nella sua assolutezza (Tristana parte con Don Horacio) conservandone però il turbamento nel sottile prolungamento dell’ascendenza di Don Lope sul carattere, sul pensiero e sugli atti di Tristana, derivano gli strati sovrapposti della struttura del film, la veglia e l’essere, l’immemorabile trasalimento, e l’addentrarsi inquieto di Buñuel nella metarealtà, condizioni di un possibile muoversi (o non muoversi) nello spazio e nel tempo. Tristana tenta di superare questa inerte equivalenza, avverte la Costrizione e si dà una regola per credere di riuscire a modificare ciò che le si pone davanti; “tra due oggetti uguali io faccio sempre una scelta” dice di fronte a due colonne uguali, a due stradine identiche, a due piccoli ceci. E la sua scelta (apparente) le dà l'illusione di vivere. Anche fra Horacio e Don Lope fa una scelta: con il moncherino tagliato disgusta il pittore e sposa il Custode; ma la “falsa scelta” tra due (oggetti) uguali, è la impietosa metafora che Buñuel propone: in effetti, il contrasto non esiste, tutti e due tendono alla Costrizione assoluta, e non c’è scampo alla nostra tragedia.















domenica 5 dicembre 2010

IL FANTASMA DELLA LIBERTA' di Luis Buñuel (1974)























Alessandro Cappabianca (Filmcritica, n. 251, 1975)

Il fantasma della libertà presenta l’impatto dei significanti nel cuore d’una struttura di racconto pre-codificata: il risultato, quale ci appare, è ancora un codice, ancora una struttura, ancora una combinatoria governata dalle leggi della narratività. L’orizzonte sul quale la momentanea in-verosimiglianza si misura è ancora quello della verosimiglianza: la libertà è il fantasma in cui si struttura il desiderio buñueliano, fantasma che corre lo spazio del narrativo. Il personaggio interpretato da J.C. Brialy, appassionato di ragni e sognatore ad occhi aperti (il che ci fa sentire abbastanza autorizzati a prestargli qualche tratto d’identificazione con Buñuel), ha dato un bel dichiarare: “Sono stufo della simmetria”, ha un bel cambiare posto agli oggetti sul caminetto (alterazione delle serie spazio-temporali, dei rapporti causa-effetto ecc.), ha un bell’inserire, accanto all’orologio, una gigantesca figura di ragno (intrusione nella serie d’un termine incongruo, o non pertinente): implacabilmente, tra la coppia simmetrica dei due candelabri, il ragno si assimila all’orologio nel pattern della sua struttura raggiata. Non è dunque lo spostamento, non è il ragno sul caminetto, a permettere di sfuggire alla combinatoria strutturante e assimilatrice dello spazio regolato dalle convenzioni del racconto filmico. Buñuel lo sa bene, e fa un film che ne è quasi una dimostrazione, nella misura in cui i significanti non tanto paiono caricarsi di forza d’urto pulsionale, in grado di scardinare realmente una struttura, quanto, svuotati di significato, astrattizzati, diventano capaci di porsi come emblemi abbastanza neutri da richiamare sotto le loro insegne le più diverse e contrastanti connotazioni. Se un distinto signore, così, distribuisce cartoline/significanti alle fanciulle nei giardini pubblici, queste cartoline potranno essere considerate pornografiche, suscitare scandalo e drammi, provocare licenziamenti, risvegliare sopite velleità amatorie e, al contrario, essere poi tranquillamente restituite (tranne una) alle bambine con un “Potete tenerle”, sempre indipendentemente dal fatto che il loro soggetto/significato sia costituito da banali vedute dei più noti monumenti di Parigi; non solo, ma il significato stesso si annulla nel suo neutro mostrarsi denotativo, e si connota al di fuori di qualunque referenza, nel momento in cui l’apparizione del Sacré Coeur è accolta da un deprecatorio “Troppo osceno!”, da parte dei genitori. Ribadiamolo, dunque; ciò che struttura Il fantasma della libertà è, sì, lo scambio dei significanti, ma ciò che ne segna la distanza dai défilés lacaniani, è il fatto che questo scambio non frantuma l’apparenza del Logos (o del Cogito), ma ne mette in certo modo alla prova l’elasticità fino ai limiti estremi, misurandone la recettività, la capacità per così dire, di riempirsi di vuoto, di sopportare dosi massicce di non-Senso. Assistiamo, così, alle fratture del Senso, alle sue incrinature, che ne marezzano la superficie, senza lasciarla esplodere: siamo davanti ad un mosaico, non ad una deflagrazione; ma le tessere (o i gruppi di tessere) di questo mosaico, non sono perfettamente accostate l’una all’altra, lasciano tra loro vuoti e fessure, in cui inopinatamente, trascinate dai significati, precipitano, scomparendo per sempre, le figure-guida, sostituite continuamente, come in una staffetta, da altre figure-guida. Non minore tra le frustrazioni che il film giustamente infligge, sta questa intercambiabilità di personaggi-guida (come richiesti dai codici narrativi e in quanto veicoli di identificazione) che ci osservano dallo schermo come tante “origini del mondo” e rinnovano ogni volta, scomparendo, il rito inquietante della sostituzione. Stabili sono solo i significanti (vuoti); per esempio, la sostituzione come personaggio-guida di Brialy con la Vukotic, avviene tramite la significante lettera: la lettera ricevuta “in sogno” che Brialy dà in mano al dottore (non se ne saprà mai il contenuto), si metamorfizza nella lettera che la Vukotic dà pure al dottore, dicendo di averla ricevuta dalla sorella. Metamorfosi, sia chiaro, niente affatto surreale, ma resa diligentemente “naturale” sui piano narrativo: fatto si è che questa seconda accezione del significante/lettera, più forte della prima (ma niente lasciava sospettare l’indebolimento di questa), espelle Brialy dalla struttura, e ci proietta la Vukotic. Così, il feticismo del commissario (Pieplu) per le scarpe ben lucidate, costringendo il brigadiere dal lustrascarpe, introdurrà, per similarità di atteggiamento, il giovane assassino col fucile; un quadro di Goya (Le fucilazioni del 3 maggio 1808) introdurrà, all’inizio e alla fine, strane avventure di disseppellimenti, nel segno macabro di tentate congiunzioni carnali con una morta; e così via. Ovviamente, non tutti questi incidenti hanno statuto di commutatori: la Vukotic, p.e., passerà attraverso tutte le storie dell’albergo (la preghiera e il gioco a carte con i frati – il cappellaio masochista – la coppia nipote (figlio)-zia (madre), ecc.) prima di essere cancellata per effetto d’un passaggio in macchina offerto a un distinto professore. Alcuni personaggi addirittura ritornano, sia pure brevemente, dopo essere scomparsi: vedi i genitori della bambina “rapita”. Notiamo qui, come nell’episodio del ricevimento sui WC, che le bambine connotano “sincerità” (“mamma, ma io ci sono ...” “mamma io ho fame ...”) nella misura in cui risultano ancora parzialmente fuori dall’ordine del simbolico (del significante) che segna l’essere adulto: condizione che sembrano condividere con gli animali (cfr. l’emblematico struzzo). In ogni caso, corrispondenze simmetriche traversano a distanza l’intero mosaico: rivolta in Spagna/rivolta allo zoo; disseppellimento della regina spagnola/disseppellimento della sorella del questore; Brialy dal dottore/Rochefort dal dottore; ricerca e ritrovamento della volpe/ricerca e ritrovamento della bambina; “parafernalia”/“colica del miserere”; sangue/ Porto rosso; ecc. ecc. La struttura profonda del simbolico sembra ricomporre gli accidenti della libertà a meno di non avere orecchio abbastanza fino da avvertire i rumori di rivolta, campane e tumulti, che la coda della colonna sonora propone assieme all’ultima immagine del film, l’inquietante struzzo, uccello fallico e surrealista, autre per eccellenza, in quanto autruche, laddove solo è possibile essere autenticamente autre, alla radice del significante.




sabato 9 ottobre 2010

TITICUT FOLLIES di Frederick Wiseman

















Il film capolavoro di Frederick Wiseman, opera prima girata nel 1967, è un documentario dalla forza visionaria sconvolgente, che segna la nascita di un nuovo modo di cogliere la realtà, di una diversa e più profonda visione del mondo, a partire dalla quale Wiseman costruirà per più di quarant'anni la sua dirompente e modernissima filmografia.

Di seguito 3 link al sito VICE che rimandano ad una intervista molto interessante fatta al nostro Wiseman:
Intervista a F. Wiseman (parte 1)
Intervista a F. Wiseman (parte 2)
Intervista a F. Wiseman (parte 3)

mercoledì 22 settembre 2010

L'AUSTRALIANO (THE SHOUT) di Jerzy Skolimowski (1978)



















Un film dalla potenza visionaria impressionante, sostenuto da un grande lavoro sull'audio e da uno Skolimowski sperimentatore di linguaggi, atmosfere, ritmi dalla carica sovvertitrice e innovativa. Tratto da un racconto di Robert Graves.

Linko di seguito i commenti a questo film di due blogger molto interessanti, Tomobiki Marchenland e Giuliano Cinema.

mercoledì 15 settembre 2010

THE GHOST WRITER di Roman Polanski















THE GHOST WRITER è un film preciso, intenso, girato con un rigore narrativo e formale fuori dal comune, che rimanda al Polanski del Pianista. Tra i migliori lavori della sua filmografia.

LINK:
FILMCRITICA: Il cerchio chiuso (di Simone Emiliani)

domenica 12 settembre 2010

I VINCITORI DI VENEZIA 67














Si è conclusa la sessantasettesima edizione del Festival di Venezia dominata da Sofia Coppola, Jerzy Skolimowski, Vincent Gallo e Monte Hellman, nel segno generale di Tarantino. Il cinema italiano non pervenuto.

LINK:
SENTIERI SELVAGGI: Leone d'Oro a "Somewhere" di Sofia Coppola

sabato 11 settembre 2010

IL DEMONIO di Brunello Rondi (1963)

















IL DEMONIO di Brunello Rondi esce dagli schemi del film di genere horror per avventurarsi in un percorso che attraversa l'analisi socio-antropologica, giungendo ad una densità figurativa del corpo e del paesaggio del tutto innovativa nel cinema italiano degli anni Sessanta.

LINK:
ZABRISKIE POINT: L'horror (d'autore) nel cinema di Brunello Rondi...

venerdì 10 settembre 2010

SOMEWHERE di Sofia Coppola












Il nuovo film di Sofia Coppola, presente in concorso a Venezia, segna un salto in avanti nella sua produzione: un film maturo, preciso, dalle immagini dense e consapevole di un percorso teorico ormai chiaro.

LINK:
SENTIERI SELVAGGI: "Somewhere", di Sofia Coppola
GLI SPIETATI: SOMEWHERE di Sofia Coppola

lunedì 28 giugno 2010

CARIBOU_Odessa

Il videoclip di "Odessa"", primo estratto dall'ultimo album di CARIBOU, "Swim" (City Slang/Cooperative Music, 2010).