giovedì 9 ottobre 2008

DEREK JARMAN_The Super 8 Programme



L’arte dell’ombra e dello specchio. E’ spesso difficile distinguere i diversi super 8 girati da Jarman nell’arco di quindici anni. La ragione risiede nel fatto che il cinema a passo ridotto del pittore-cineasta inglese è un crogiuolo cui attingere continuamente per nuove fusioni che originano a loro volta altri film, proprio come le trasmutazioni che avvenivano nei secoli scorsi in un gabinetto di alchimia. Singole immagini o intere sequenze trasmigrano infatti da un’opera all’altra, modificate, ricolorate, rifotografate, sovrimpresse le une alle altre, assecondando così la logica di un cinema “expanded” in tutti i sensi. Il parallelo con il processo alchemico non è solo una metafora, In the Shadow of the Sun – come spiega bene O’Pray – allude alla pietra filosofale e si basa proprio su un libro di Gratacolle William del 1652, nonché sul simbolismo junghiano. Ma al di là dei riferimenti magico-simbolici, in questo tipo di produzione, la più libera e pura di Jarman anche rispetto ai lungometraggi narrativi, la composizione è inseparabile dalla tecnica. Vale a dire che tutto sommato il vero soggetto del film è proprio il tipo di procedimento adottato, il medium è la tecnica stessa. A parte Journey to Avebury – l’unico costituito quasi esclusivamente da inquadrature fisse caratterizzate da un filtro giallo – i film che proponiamo si basano sull’elemento della sovrimpressione, usato per la prima volta da Jarman in The Garden of Luxor (1972). E’ piuttosto scontato rilevare come i super 8 rappresentino un territorio di passaggio dalla pittura al cinema. Il trasferimento di alcuni motivi, soggetti e procedimenti da un medium all’altro, è dimostrato dal citato film su Avebury – che tra l’altro potrebbe essere accostato, se ci riferiamo all’ambito del cinema sperimentale britannico dei primi anni ’70, ai cosiddetti landscape film di Raban, Welsby, Sercombe, ecc. – da cui Jarman trae nello stesso periodo una serie di fotografie. Nei super 8 la riduzione di velocità nel dispositivo di ripresa/proiezione assimila l’immagine filmica a quella pittorica. Il colore si raggruma nell’inquadratura, si solidifica, diventa materia che si modella nella luce e nella durata. Ma l’artista non si accontenta di un semplice ralenti, il suo scopo è di ripensare totalmente la natura temporale del cinema. Jarman obbliga lo spettatore ad un particolare atteggiamento percettivo di fronte ai suoi cortometraggi, stimolando una riflessione sul rapporto tra la posa e il movimento. Modificando la scansione dei fotogrammi, Jarman ritrasforma nuovamente il cinema in fotografia, suo medium primigenio. Da un altro punto di vista, dunque, i super 8 di Jarman generano un momento di riflessione sul binomio cinema/fotografia: Stolen Apples for Karen Blixen è un esperimento ancora più esplicito in questo senso, poiché il cineasta crea doppie esposizioni di immagini in movimento su due foto della scrittrice. Qualcosa di simile avviene nel lunare Ashden's Walk on Møn, in cui Jarman lascia come sfondo su cui “incrostare” altre immagini, la fotografia di una nebulosa. Sovrimpressione vuol dire instabilità della visione, piacere nel far convivere più immagini contemporaneamente da cui scaturiscono nuove associazioni, significati, percezioni. La sovrimpressione si avvicina tecnicamente alla visione onirica. La sovrimpressione è come un’ombra, un’ombra particolare che solo il cinema (insieme alla fotografia) può creare. L’altro elemento che permette la convivenza di più immagini dentro la stessa inquadratura è lo specchio. Ma in The Art of Mirrors Jarman non ci mostra l’immagine specchiata, si serve di questo strumento per mettere in scena un rituale magico e surreale: un uomo in smoking attraversa lo schermo con uno specchio che rimanda riflessi verso l’obiettivo della cinepresa. Poi lo specchio passa nelle mani di una donna in abito da sera e cappello nero piumato che si avvicina poco alla volta allo spettatore, come ipnotizzandolo. Una scena stile anni ’20 che ci riporta al dadaismo di un Man Ray e al surrealismo un po’ mitico di Cocteau. L’ombra e lo specchio – come ha scritto Victor Stoichita – sono due elementi che hanno avuto non poca importanza nella storia della pittura occidentale. E Jarman questo lo sa bene. Altri rituali, più complessi, li ritroviamo in quello che forse è il capolavoro dell’era a passo ridotto di Jarman: In the Shadow of the Sun. I tasti di una macchina da scrivere; un uomo che scatta alcune fotografie; il fuoco che brucia e si sovrappone a figure umane di spalle, volti, paesaggi filtrati; un uomo con un candelabro avanza, poi batte le mani; una persona col cappuccio bianco avanza tra le dune di sabbia; la sagoma di una pianta; un signore con il cappello a cilindro; infine ecco la morte, un cranio scheletrico che spicca su un ampio vestito bianco. Sono alcuni frammenti figurativi, presenze fantasmatiche che affiorano da una texture in continua trasformazione. La suggestiva sinfonia alchemica di Jarman è dominata soprattutto dal fuoco, elemento-chiave in cui confluiscono tutti gli altri: dal luccichio dell’acqua che sembra neve, alla nube gassosa della parte finale. Il tutto accompagnato dalla straordinaria musica dei Throbbing Gristle, fatta di riverberi metallici e ondulazioni sonore. Una musica liquida e ipnotica che sottolinea perfettamente gli echi antichi e moderni, classici e sperimentali di cui si nutre l’arte cinetica di Jarman.

Bruno Di Marino (dal dvd edito dalla Rarovideo)

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