martedì 11 novembre 2008

HERMITAGE di Carmelo Bene

PRIMA PARTE



SECONDA PARTE



TERZA PARTE



(A cura di) Guido Aristarco, Guida al film, Fabbri, Milano, 1979.

Questo film, assolutamente inedito, è importante perché ha il carattere di un vero e proprio manifesto della poetica di Bene. In esso, infatti, sono contenuti, in nuce, i temi, i motivi, lo stile, le tendenze e i rimandi culturali di tutta quanta la sua opera. Data l’inaccessibilità del lettore al film, conviene quindi dar conto, con abbondanza di particolari, degli elementi fabulistici. Ma, prima, un riferimento per così dire filologico: con il titolo Hermitage si conosceva di Bene un racconto pubblicato nel 1967 nel volume "Credito italiano". Tranne piccole varianti, il film ripete quel testo. Unico protagonista, lo stesso Bene. L’azione: una stanza d’albergo, con arredamenti barocchi, rossa, soffocante. C’è un grande specchio inghirlandato e fiori artificiali di uno "stralunato" azzurro, il camino col fuoco acceso, intenso. E c’è la musica di Verdi che ora si sovrappone ora prende il posto dei monologhi dell’attore. All’inizio dell’azione una sorta di "minuetto" con i fiori azzurri più volte ripresi in un montaggio alternato col volto dell’attore. Poi, un picchiettare alla porta e una voce di donna: "Sei tu? Che fai, ti chiudi dentro? Non fare il cretino, aprimi". Apre la porta, si inginocchia, guarda la donna che gli sta di fronte, bellissima, immersa nella luce come intrecciata in aureole. Adesso la vede doppia; la triplica. Ha proprio un che di sacrale, di intangibile. Nel racconto è una che ha sbagliato stanza, si scusa e va via. Nel film va via, in silenzio. L’attore rientra nella camera; siede e, indolente, accende un lunghissimo fiammifero. Poi, dinanzi allo specchio, si toglie il cerone dal volto. Quindi si veste, indossa una vestaglia e, in un rosso vermiglio, assai intenso, torna a guardarsi allo specchio. Scrive una lettera che mette sotto l’uscio della sua stessa stanza; sbircia nel corridoio e, furtivo, rientra. Ancora dinanzi allo specchio, legge la lettera che si è mandata e, mentre la legge, la cinepresa carrella sulla fiamma di una candela, accarezza le immagini vezzose di un arazzo sul muro. Quindi, in dettaglio, la lettera: "Cara, è un divino errare ma destino ti accompagnò alla mia casa...il passato tuo e mio non conta più, quindi devi tornare...credimi tuo". Rilegge l’ultimo brano della lettera e con una matita aggiunge un’asta al "tuo" che così diventa "tua". Si guarda allo specchio e tra ghirlande di fiori azzurri declama: "O duce della mia coorte leggera, non voglio credere ai delitti di cui ti si accusa...Sei troppo bello, è giusto che ti si coroni al cospetto di tutti gli dei. Io non voglio sapere se tu vaneggi. T’amo". Va nella stanza da bagno. Declama: "Perché mi tradisti", mentre, in dettaglio, divampa il fuoco del camino; poi, in primo piano, un’immagine flou della donna, invitante, riflessa nell’acqua della vasca. "Ieri come oggi", dice l’attore, "è la stessa cosa: uccidere la storia per fare contenta sua madre, o uccidere sua madre per fare contenta la storia". E, dopo una convulsione, scrive: "Cara mamma, io sto bene, e tu? Non è facile quanto credevo. Io lavoro. Ora devo lasciarti. Ti abbraccio...". Stringe forte il biglietto e, accartocciandolo, lo fa cadere nel gabinetto: "Basta! È finita con chi mi vuole bene!" dice. Ultima sequenza: ancora la stanza, di un rosso più intenso, cupo. L’attore è seduto e stancamente si versa dello champagne. Beve. La coppa gli scivola dalle mani.

Il nucleo centrale del racconto è costituito dall’ossessiva presenza della madre come unica immagine femminile, e attorno a questo nucleo si articola il simbolismo di chiara matrice freudiana. Se si accetta, infatti, il concetto di Jacques Lacan secondo cui "ciò di cui l’amore fa il suo oggetto è ciò che manca nel reale", si nota come in Bene il desiderio di una "identificazione primaria" con la madre esprima il bisogno di un ritorno all’essere che dà la vita (alla madre, appunto) per ricostituire, con essa e in essa, una "unità originaria", per ricomporre finalmente la propria esistenza dimezzata. Da ciò il gusto del trasformismo, la necessità del travestimento, il bisogno del narcisismo. La donna, infatti, che per errore bussa alla porta della sua camera è subito deificata, trasportata ad altezze mistiche e irraggiungibili, mentre evoca, per la sua stessa natura di donna, l’idea della madre e con essa il desiderio, nel protagonista, d’essere egli stesso madre (il "tuo" della lettera diventa "tua"). La convulsione finale che prende Bene quando, nell’acqua della vasca da bagno immagina riflesso, invitante e sinuoso, il corpo della donna, si placa appena ammette che è tempo di farla finita con chi gli vuole bene; con ogni donna, cioè, che non sia la madre. Da tale impostazione tematica deriva anche una rigorosa scelta stilistica: il barocco, che dà all’opera una struttura che vorrebbe essere "aperta" ma che subito entra in tensione con un certo recupero del "floreale", una specie di "di più" funereo e sovrabbondante; il melodramma dato come accentuazione enfatica a cui corrisponde l’enfasi del recitativo, entrambi utilizzati come elementi dissacranti, fortemente ironici, spie della consapevolezza di chi si sa dominato da una cultura "decadente" a cui tuttavia non può, non vuole sfuggire.

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