giovedì 10 luglio 2008

3 FILM DI CHRIS MARKER (3)_Level Five



INTERVISTA DI DOLORES WALFISCH
(In The Berkeley Lantern, novembre 1996)

D.W.: Temo che non vincerò l’Oscar per la domanda più originale chiedendole: “Perché Okinawa”?
C.M.: Ultimamente si parla molto di un CD-Rom sulla guerra del ’39. Cerchi Okinawa: “I giapponesi hanno perso 110.000 uomini, tra cui molti civili…”. Doppio errore, le perdite militari giapponesi sono in realtà 110.000, i civili erano gli abitanti di Okinawa, una collettività autonoma con la propria cultura e storia, annessa al Giappone dopo esserlo stato alla Cina…Il numero dei loro morti è stimato a 150.000, un terzo della popolazione dell’isola, un’inezia…Prenda l’enciclopedia Grollier: “Gli americani hanno perso 12.000 uomini, i giapponesi 100.000” – ecco, non una parola sui morti civili che, in gran parte, sono deceduti con un suicidio di massa che è continuato anche dopo la fine della battaglia: li avevano convinti a non arrendersi. È questo esempio unico, uno degli episodi più folli e più atroci della Seconda Guerra Mondiale, dimenticato dalla storia, cancellato dalla memoria collettiva, che ho voluto rimettere in luce.

D.W.: Detto così, ci si aspetterebbe un “documentario di storia”. Ma quello che vediamo è tutt’altro…
C.M.: La televisione ha cambiato molte cose. Tutta la parte su Okinawa di Level Five si articola attorno al racconto di un testimone. Lo immagini in un quadro “documentario” come dice lei (ho sempre odiato questa parola, ma il punto è che nessuno ha saputo trovarne un’altra, i tedeschi sono comunque un po’ più eleganti dicendo “Kulturfilm”…), iscritto nella giornata di un telespettatore, tra il racconto del calvario di un bosniaco, quello di un Ruandese e di un sopravissuto della Shoah. Quanti calvari può assimilare così, e lasciare che ognuno di essi permanga unico. Dovevo trovare qualcos’altro.

D.W.: Questo altro include il videogioco, le immagini computerizzate e la presenza di una donna?
C.M.: Sì, le mie allucinazioni preferite. Mi esprimo con quello che ho. Contrariamente a quello che spesso si sente dire, nel cinema, la prima persona è piuttosto un segno di umiltà: “Tutto quello che posso offrire è me stesso”.

D.W.: Dunque Laura sarebbe un tramite, il link mancante tra lo spettatore e l’atrocità della guerra?
C.M.: È abbastanza integra da non sentirsi a disagio nell’esplorare a fondo la sua tragedia personale e quella della guerra perché ogni tragedia è in sé unica. Una piccola borghese colpevolizzata , anche se lo pensa, non lo direbbe mai (anzi penserebbe che la sua tragedia è più grave). Laura sa che la sofferenza non è un’aristocrazia. Depone la sua accanto a quella delle vittime di Okinawa come uno di quei bouquet che i genitori dei bambini annegati gettano in mare. Per conto mio, siccome penso che per uno spettatore sia più facile riconoscersi nella sofferenza di Laura piuttosto che in quella di un uomo che ha massacrato la propria famiglia, scommetto su questo riconoscimento per farlo accedere al livello di compassione che Laura ha raggiunto immergendosi nella tragedia di Okinawa. Ma è una scommessa.

D.W.: Questo “livello” è Level Five?
C.M.: Ci sono i livelli del gioco. Quelli che vengono usati metaforicamente per classificare le cose e la gente e il modo in cui entra lei stessa nel gioco. A cosa stia pensando alla fine, io non lo so. Lascio allo spettatore questo compito.

D.W.: È un modo per rispettare lo spettatore o ignorarlo?
C.M.: Non penso mai ad un possibile spettatore. Mi hanno accusato di disprezzo. Parliamone: fare tutto per uno spettatore immaginario, quindi credersi abbastanza furbi da programmarlo nella propria testa e adattarsi a lui, oppure dirsi semplicemente di non poter incontrare altra gente che possa provare le stesse cose nello stesso modo. Da che parte è il disprezzo?

D.W.: Perché Catherine Belkhodja?
C.M.: Non si discute l’evidenza.

D.W.: Lo spazio di lavoro di Laura, dove dialoga per la maggior parte del tempo, sembra essere lo spazio di realizzazione del film stesso.
C.M.: Esatto. Era una delle particolarità del dispositivo, la scena diventa lo strumento di realizzazione. Il computer che vediamo, il buon vecchio PowerMac, è servito per gli effetti visivi. La consolle che si vede all’inizio è il mio tavolo di montaggio. Fatta eccezione per le riprese giapponesi, si è fatto tutto in due, senza equipe, senza tecnici, in sei metri quadrati. Recentemente Lelouch ha detto di sognare di fare un film senza tecnici e mi chiedo che cosa glielo impedisca. Se si tratta solo di trovare un produttore senza un soldo posso indicarglielo io.

D.W.: Un manifesto di quel “cinema povero” giustamente enunciato recentemente in una scuola di cinema?
C.M.: Un cinema possibile. Sarebbe stupido vederci altro. Un film come Lawrence D’Arabia, Andrei Roublev o Vertigo, non verrà mai girato in questo modo. Ma adesso gli strumenti ci sono ed è una novità per il cinema intimistico, della solitudine, un cinema realizzato con il faccia a faccia con se stesso, quello del pittore o dello scrittore, avere accesso ad un altro spazio diverso da quello del film sperimentale. La camera-stylo del mio amico Astruc era comunque una metafora. Il più piccolo oggetto cinematografico aveva ancora bisogno del laboratorio, della sala di montaggio, di un sacco di soldi… Oggi, un’idea e un minimo di materiale permetterebbero a un giovane regista di mettersi alla prova senza dover corteggiare i produttori, le reti televisive o le commissioni.

D.W.: Lei non concede mai interviste. Che le è successo?
C.M.: Berkeley è la mia seconda patria. La terza con il bar “La Jetée” a Tokyo… Ne ho approfittato per chiarire due o tre punti sui quali ci potevano essere dubbi. Ma per il resto, se il film non risponde alle domande poste all’autore è perché non valeva la pena di essere fatto.

Dal Press Book

Nessun commento: