giovedì 29 ottobre 2009

CHE di Steven Soderbergh




CHE (FARE) CONTRO L'ICONA di Lorenzo Esposito (Filmcritica, n.595, maggio 2009)

L’eclettismo di Steven Soderbergh, interessante di per sé per le deviazioni, i ritagli e i salti di campo che origina (epigoni, ormai un po’ ovunque, compresi), non smette tuttavia di accentrarsi attorno alla questione della tecnica. Sia chiaro, nessuna preoccupazione tecnologica, ma una passione sistematica per il traffico di formati e grane, per il frull frontal della storia dell’occhio. Come tutte le simmetrie inestricabili, questa storia dissemina rilievi e creste, tessuti filiformi e brusche irregolarità, sezioni trasversali e distese cesellate – Kafka e Out of Sight, Underneath e Traffic, Solaris e la serie Ocean. Finchè, impattando la Storia (Che, ma anche The Good German, a sua volta immediatamente simmetrico), ne riconosce l’eterna modularità affrancata dal ritmo, l’incedere di processione immobile.
Senza troppa fatica, si pensa al Rossellini televisivo. E non solo televisivo: le bianche facciate di Santa Clara e la battaglia spigolo a spigolo rasente le mura sono quasi la Firenze di Paisà. Si percepisce cioè quell’attitudine a fare del film un’unica domanda sul guardare, sulla fragilità e sulla potenza insieme di ciò che viene creduto e detto contemporaneo. L’immagine prima del cinema, l’immagine strappata alle consuetudini del filmare, pur iscritta sullo stesso asse (solo per caso film), si trasforma con così rapida inavvertenza che sovente due tagli successivi non hanno più molto in comune (a prima vista..), ma proprio perché allo stesso tempo lo sguardo ricostruisce senza fatica il gioco delle trasformazioni (o movimento). È per questo che il Che cubano si smembra con naturalezza nell’andirivieni del tempo e quello boliviano fila cupo e ossessivo verso la morte: anche quando è evidente lo sforzo di cambiare regime o di fingere il tourbillon di interessi e film differenti, Soderbergh ricorda che la storia dell’occhio è anzitutto illusione di vedere. Lo sa anche Guevara, che dopo la vittoria a Santa Clara fa presente a un compagno e a se stesso: “Questa è solo la guerra, la rivoluzione comincia ora”, cancellando la tipica tentazione dell’umano a farsi illustrativo e rappresentativo. Il Che di Soderbergh, come Socrate Cartesio o Pascal, conduce un’aspra battaglia contro gli orpelli stilistici e figurativi, cercando piuttosto la verità in ciò che automaticamente e tragicamente sfugge all’occhio, giungendo a far coincidere la lotta per la sopravvivenza con questa inadeguatezza, con la necessità lacunosa del vedere.
Il corpo si fa glorioso quando è capace di sparire. Ecco perché Soderbergh inquadra di taglio e di schiena il suo eroe, prosciugandolo d’ogni mitologia, costringendo lo spettatore a disfarsi della storia iconologica sottesa e galleggiando infine nei vuoti e nelle attese, nelle marce estenuanti, nella statica paradossale delle rivoluzioni (se volete fare i rivoluzionari procuratevi un buon sigaro con cui occupare il silenzio e l’attesa, scriveva Guevara nel suo diario boliviano). Il mito di un nuovo mondo si mostra un po’ più claudicante e asmatico del business fotografico perfetto che da decenni ha permesso al potere di disinnescare la figura politica del Che (sarà per questo che per lungo tempo Soderbergh ha pregato Terrence Malick di girare il film, convincendosi infine a fare da solo; mentre lo stesso Malick sembrava aver intuito questo punto, lanciandosi in ricerche fluviali e certosine senza mai decidersi a filmare).
La verità è che anche Soderbergh non fa altro che accumulare la/le histoire(s) delle immagini (non più del cinema). Decifra misura cataloga i flussi e le curve d’intensità depurandole e insieme estraendole dal fondo. Si inserisce nei lembi del tempo e ne fa dei sintomi di ciò che perdura nell’accavallarsi e intrecciarsi delle storie umane. Studiare queste immagini, fingere di diffonderle nello spettro variabile del film, significa studiare il modo in cui si instaura, attraverso l’immagine, il tempo stesso dei corpi. George Clooney, Benicio Del Toro. Pellicola, digitale. Digitale che cerca l’effetto pellicola. Colore, bianco e nero. Cieli tersi e sgranature video. Cos’altro sono questi reticoli se non il regime discontinuo del tempo e dello spazio (ben prima della discrezione e discontinuità della tecnologia), l’organicità fatta di ripetizioni e rimozioni, di segnalazioni e di impronte (le tracce che un guerrigliero deve fare attenzione a non lasciare!). La regola della guerriglia è movimento movimento movimento, fino a diventare invisibili e insieme dare l’illusione di essere ovunque e in gran numero, di essere un unico spettrale falso movimento. Che è un film contro l’azione (ma non lento, come ingenuamente si è scritto), allo stesso modo in cui non esiste storia univoca, ma una genalogia delle latenze, dei buchi, delle imperfezioni. Solo scorgendo quanto moto c’è nella stasi (nella fermezza) Ernesto ‘Che’ Guevara ha potuto, per dirla in termini ruiziani, lasciare il Ministero per il Mistero, ha potuto decidere di vedere a occhi chiusi, mentre il film della vita si fa da sé.
E allora il blocco boliviano è un altro Solaris. Raggio verde che nasconde nella boscaglia il tentativo delle immagini dimenticate di aggrapparsi al ricordo, di inventarsi un doppio, di moltiplicarsi, di resuscitare. Tentare di fermare il tempo (“Ho trentanove anni, la mia carriera di rivoluzionario è al capolinea”), provando a raggiungere la propria immagine già fantasma col sogno ancora di modificarla, ben sapendo che l’icona perfetta si avvicina al nulla (come insegnano Pavel Florenskij e Andrei Tarkovskij). Essere sempre sul punto di annullarsi e cancellarsi. Cercare il tono sommesso di un’eroica dismissione. Come il rivoluzionario, Soderbergh sa che l’immagine deve resistere a se stessa, essere inadattabile, combattere il proprio potere.

lunedì 26 ottobre 2009

ONE PLUS ONE - SYMPATHY FOR THE DEVIL di Jean-Luc Godard

“Quello che mi interessava era proprio questo: dividere in due. Mi ricordo che così era in tutti i film che tentavo di fare a quell’epoca e di cui solo questo è stato finito… Il soggetto era questo: da un lato c’era One – cioè i Rolling Stones – e di fronte c’ero io. Questo faceva dunque One plus One. Uno più uno, che era un modo per cercare di fare due. Ma poi mi sono accorto, dopo, che fra due cose ci deve essere sempre un’altra cosa, cioè quel più o quel meno. Non è mai solo due; è tre o… E’ sempre tre. E proprio per questo il film che facevo non era un film era solo one più one, diciamo così. E non arrivava a essere una parità, quel più che mi escludeva non diventava… Cioè in quel film non ci pensavo. Erano solo, appunto, alcuni elementi”. (Jean-Luc Godard, Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti 1982)

DARKNESS, LIGHT, DARKNESS di Jan Svankmajer

Uno dei tanti capolavori del maestro dell'animazione Jan Svenkmajer. Parte dei suoi lavori è stata pubblicata in Italia in un dvd edito da Rarovideo.

venerdì 23 ottobre 2009

TANGO di Zbig Rybczynski



"Thirty-six characters from different stages of life - representations of different times - interact in one room, moving in loops, observed by a static camera. I had to draw and paint about 16.000 cell-mattes, and make several hundred thousand exposures on an optical printer. It took a full seven months, sixteen hours per day, to make the piece. The miracle is that the negative got through the process with only minor damage, and I made less than one hundred mathematical mistakes out of several hundred thousand possibilities. In the final result, there are plenty of flaws black lines are visible around humans, jitters caused by the instability of film material resulting from film perforation and elasticity of celluloid, changes of colour caused by the fluctuation in colour temperature of the projector bulb and, inevitably, dirt, grain and scratches.”

Zbig Rybczynski, "Looking to the Future - Imagining the Truth” in FranÐois Penz, Maureen Thomas, Cinema& Architecture. Mþliús, Mallet-Stevens, Multimedia, BFI, London, 1997.

www.zbigvision.com