Edoardo Bruno (Filmcritica, n.210, 1970)
L’inquietudine meticolosa che sorprende ad ogni sequenza di Tristana è il segno di una trasposizione allucinante che Buñuel opera sulla realtà. La stessa severa scansione che delimita il campo entro cui si muovono i personaggi-simbolo, diviene proposta agghiacciante di una vicenda che trasferisce i suoi significati, al di là dei segni apparenti, nel mito di una convinzione metaforica, che ricerca, anche nella definizione del tempo, una atemporalità panica, che inspiegabilmente si spiega. Si avverte subito dalla prima sequenza su Toledo e su Tristana e Saturno che avanzano, l’incrinatura che Buñuel trasferisce sul tessuto fisico, la strutturazione diversa del colore, del suono, dell’immagine e del tempo, che traduce una più esatta visione, sospesa tra allucinazione e realtà. Buñuel procede per parentesi; il suo universo è sempre parte di tutto, è la cittadella impenetrabile entro cui racchiude il silenzio delle sue costanti mediazioni tra sensazioni e visioni, in cui dilata gesti impercettibili a momenti accertati, come ad esempio le azioni tra Tristana e Saturno, dal gioco dei ragazzi, che sulla torre campanaria toccano le sue cosce, sino al turbativo denudamento del seno, eseguito con la composta sacralità di un rito dall’alto del balcone. Il prolungamento esatto dei tempi è sottolineato dal taglio accorciato di talune sequenze, dall’interruzione del sonoro che precede i passaggi di campo (cfr.: la introduzione di Don Lope); dalla visione rapida di alcuni particolari e dal concentrarsi lento di altri raccordi; dai trasalimenti improvvisi di Tristana. Come un’ombra, le mutazioni di carattere – dalle “attonite” sorprese iniziali, alla cruda determinazione finale – sono svelate attraverso una serie di atti consapevoli, “sorpresi” sul viso e sullo sguardo dell’attrice (Catherine Deneuve) e riflessi nella rappresentazione della realtà circostante. La città di Toledo, è vista come memoria trasposta nel tempo, come una serie di interni, dove oggetti e persone si delineano in un vuoto senza aria, senza presenza. Le stradine scoscese, i giardini, le piazze; o gli interni delle chiese, dei caffé, delle case, sono rappresentazioni di stati d’animo, soggettivazioni di una realtà ricordata. Come la stessa sequenza sugli scioperi e la carica della polizia, improvvisa immissione di una stasi violenta, teatro di una situazione, messinscena di un dato reale, inquietante, dimensione ideologica di una “realtà” memorabile. L’incidenza della memoria è un elemento particolare di Buñuel, è una maniera di mutuare dalla fantasia gli stati di una inquietudine che si insinua nelle pieghe della sua costruzione, che prolunga la tensione delle sue messe in parentesi, sino alla conclusione delirante delle visioni oniriche, delle ossessioni improvvise, delle rotture operate sulla superficie del vero. Il rapporto padre-amante, figlia-amante che si conclude nel convenzionale rapporto marito-moglie, determina la situazione apparente dentro la quale, al di là delle convenzionalità narrative, Buñuel rinserra, à rebours, il suo discorso, contro le apparenze, dentro le interiorità stesse della disperazione impietosa. La rispettabilità di Don Lope, il suo ragionamento, le sue contraddizioni, sono il segno del tempo, le caratteristiche portanti di una mentalità metaforica di una intelligenza laica, di una convenzione alla quale appartiene – sia pure come punta avanzata – la stessa Tristana, il femminismo, la necessità di affermare una diversa morale, la liberazione da uno stato di passività sono momenti di una storia borghese, da cui parte la distruttività di Buñuel. Il racconto di Benito Galdòs da cui trae origine il film è, nonostante tutto, il punto di partenza di una “situazione borghese”. Si possono avvertire nelle sue pagine certe smagliature che presentano il tono dissacratore, ma sostanzialmente è difficile operare su due piani, il romanzo appare come un’iniziazione erotica, apparentemente innocente, fatto attraverso interventi diretti – le parole – e interventi riflessi – le lettere – nello stile della migliore tradizione letteraria (Laclos) sino all’inquietante interrogativo finale (Sono felici? Forse) che sospende un giudizio, ma prelude a una possibile lettura, a rovescio, della situazione descritta. Con un’unica eccezione: la presenza continua, inquietante, “surrealistica”, se si vuole, della Costrizione, che attraverso impossibili fili, tiene reclusa nella casa di Don Lope, la intrepida Tristana, prima con legami inavvertiti, poi con la malattia, e quindi con l’amputazione della gamba. Da questa situazione, che Buñuel interrompe nella sua assolutezza (Tristana parte con Don Horacio) conservandone però il turbamento nel sottile prolungamento dell’ascendenza di Don Lope sul carattere, sul pensiero e sugli atti di Tristana, derivano gli strati sovrapposti della struttura del film, la veglia e l’essere, l’immemorabile trasalimento, e l’addentrarsi inquieto di Buñuel nella metarealtà, condizioni di un possibile muoversi (o non muoversi) nello spazio e nel tempo. Tristana tenta di superare questa inerte equivalenza, avverte la Costrizione e si dà una regola per credere di riuscire a modificare ciò che le si pone davanti; “tra due oggetti uguali io faccio sempre una scelta” dice di fronte a due colonne uguali, a due stradine identiche, a due piccoli ceci. E la sua scelta (apparente) le dà l'illusione di vivere. Anche fra Horacio e Don Lope fa una scelta: con il moncherino tagliato disgusta il pittore e sposa il Custode; ma la “falsa scelta” tra due (oggetti) uguali, è la impietosa metafora che Buñuel propone: in effetti, il contrasto non esiste, tutti e due tendono alla Costrizione assoluta, e non c’è scampo alla nostra tragedia.