giovedì 17 luglio 2008

L'INLAND EMPIRE dei sensi



Conversazione con David Lynch a cura di Fulvio Baglivi, Federico Ercole, Lorenzo Esposito, Donatello Fumarola (Filmcritica, n.571-572, gennaio/febbraio 2007)

L’impressione netta è che INLAND EMPIRE attraversi e oltrepassi il cinema, e si ritrovi in un territorio a cui è difficile dar nome, che ha a che fare con l’esperienza nuda, annullando la tradizionale forma del film e più in generale del cinema (bisognerebbe risalire direttamente a Lumière per trovare la stessa flagranza, lo stesso nesso temporale che si fa immagine). Vorremmo sapere come lei stesso vede, ora, INLAND EMPIRE, e come è nato o da cosa è nato.
Non saprei. Ho realizzato INLAND EMPIRE in modo diverso rispetto ai miei precedenti lavori e rispetto a come si fa il cinema normalmente. Non solo perché l’ho girato in DVcam, ma anche per il modo in cui sono nate le idee che lo hanno reso possibile. Sono le idee che impongono tutto. Quando mi viene in mente, l’idea già ha una sua forza autonoma, si auto-impone. Se mi viene in mente l’idea per una sedia, vedo già la sedia, vedo com’è fatta, mi faccio trasportare dall’entusiasmo e la costruisco così come si è imposta nel pensiero. A volte durante la fase realizzativa mi capita di perdermi. Ma poi se riesco a tornare all’idea da cui è partito tutto, ritrovo subito la forza di andare avanti. INLAND EMPIRE è iniziato con delle idee per alcune scene. Poi ho cercato il modo attraverso cui quelle idee avrebbero potuto adattarsi al cinema, e ho iniziato subito a lavorare, a fare delle riprese. Però le idee che avevo riguardavano singole scene, momenti separati. Il problema era come metterle insieme. È così che è cresciuto il progetto, momento per momento. A un certo punto ho sentito venire fuori l’insieme.

Durante le riprese?
Sì. Perché inizialmente non sapevo se sarebbe stato un lungometraggio o altro. Me ne sono reso conto mentre giravo. È allora che ho chiamato Canal Plus, in Francia, e ho detto loro: “Non so quello che sto facendo, ma ne verrà fuori un film e lo sto girando in DVcam. Volete partecipare?”. Mi hanno risposto di sì. È così che sono andate le cose.

E il risultato rispetta le idee da cui è partito?
Io sento che il film vuole essere in un certo modo, che detta una sua linea. Così continuo a lavorare finché il film non mi parla e mi dice: “Sono pronto.” Con INLAND EMPIRE avevo però la sensazione che le cose stessero prendendo una brutta piega. Stava venendo fuori una cosa troppo diversa dal solito. Parlando con delle persone a Venezia mi sono reso conto che il loro unico problema era che non lo capivano, ma si sforzavano comunque di oltrepassare l’incomprensione iniziale, affrontando il viaggio, e abbandonandocisi. Negli Stati Uniti Hollywood Reporter e Variety hanno stroncato il film, lo capisco, sono delle riviste per il mondo degli affari, e hanno le loro ragioni, non è un film fatto per fare soldi. In Francia Liberation ha pubblicato un bell’articolo, definendolo un “capolavoro”. Credo che sia un film che funzioni diversamente dal resto del cinema, e credo che comunque a una certa parte di spettatori piaccia. Sono curioso di vedere quale sarà la sua sorte in giro per il mondo…

Non c’era un copione prima di iniziare le riprese…
Di solito lo faccio, ma per questo film no. Avevo scritto delle pagine per ogni scena, scrivevo una scena senza sapere quale sarebbe stata la seguente. Questo accade normalmente quando si scrive una sceneggiatura. Si scrive una scena, non si sa quale sarà la seguente, ma si aspetta, non si va a girare la scena. Si aspetta a girare finché il copione è ben strutturato, perché si sa quello che si deve girare. Ma questa volta scrivevo e subito mi mettevo a girare, a ogni scena, senza sapere come mettere insieme il tutto, finché non sono arrivato più o meno a metà film.

Quindi le immagini stesse sono state la pagina bianca dove il film si è scritto, o se preferisce, la tela. Questo mette in causa molto radicalmente la questione del vedere prima di ogni altra. Per lei cos’è l’atto di vedere?
L’atto di vedere è l’atto di sapere. Sapere. È una cosa molto precisa. Il cinema è vedere, è sentire, è tempo, è far fluire una cosa in un’altra cosa con un certo ritmo, con una certa luce. Tutti questi elementi vanno insieme. Un’idea è una specie di sapere istantaneo. È qualcosa che viene all’improvviso e che ha a che fare con l’istante. È come nei fumetti dove fanno vedere che si accende una lampadina. Quella è un’idea. In quell’istante sono presenti tantissime cose contemporaneamente. Quando ho un’idea, comincio subito a scrivere e mi rendo conto che non è una sola frase, ma tante frasi. Poi c’è uno stato d’animo e cerco di descriverlo. Ripenso all’idea di partenza e riscrivo. C’è una stanza che deve essere in un certo modo e la descrivo. Da una sola idea a volte vengono fuori molte pagine. Le idee sono molto importanti e provengono da dove proviene tutto: dalla fonte, da un campo unificato, dall’oceano della coscienza pura. È da lì che proviene tutto. Bisogna tuffarsi in quell’Oceano...

Lei ha detto che l’atto di vedere è sapere. Ma per esempio in INLAND EMPIRE, e non soltanto in questo dei suoi film, occupa una grande parte l’oscurità, il buio... Cos’è quel buio per lei?
La storia del film prende spunto da una donna che ha dei problemi. Questa donna vive in un certo posto e all’improvviso si perde sempre di più in qualcosa che si potrebbe chiamare “oscurità”. La risposta al come e al perché si trova lì, nell’oscurità. Quindi lei continua a andare avanti. Davanti a lei ci sono ovunque delle aperture. Ma c’è anche un’apertura segreta e lì inizia una storia bellissima. Mentre si continua a vedere tutta la sofferenza, tutta l’oscurità, tutti i problemi che ha quella persona. Ma oltre quell’apertura segreta c’è la libertà, c’è la possibilità di godere della totalità, di tutta la storia. È una cosa straordinaria. Nel film Laura Dern ha due nomi: Nikki Grace e Susan Blue. È tutto lì, nel film. Gran parte di INLAND EMPIRE è una discesa agli inferi. Ma alla fine c’è una luce bellissima.

Quello che è interessante è che lei ha girato in video. Se il film fosse stato girato su pellicola 35mm, la grana dell’oscurità sarebbe stata diversa. Con il video c’è qualcosa che ha un effetto di sgranatura. È una strana oscurità perché non è una vera oscurità, è come una nebbia.
Sembra granulare.

Per più di un’ora ci è sembrato di camminare nella nebbia. Sullo schermo quasi non si vede niente, però allo stesso tempo si vedono molte cose, come se succedesse più di quanto si riesce a vedere. È una immagine della differenza: lei ha girato in video, e col video è molto difficile restituire al buio l’oscurità...
Col video è più facile girare nel buio, però hai la grana, è vero. Io ho girato con una telecamera non molto più grande della vostra palmare, però DVcam. Il DVcam offre possibilità eccezionali. Pesa poco e si può tenere in mano. Non si può tenere in mano per molto tempo una Arriflex o una cinepresa Panavision, sono troppo pesanti e ci si stancherebbe moltissimo. Con la videocamera invece posso ondeggiare (uso il pogo stick per ondeggiare), ha la messa a fuoco automatica, riprese da 40 minuti.. È una grande libertà. Posso cambiare facilmente, prima posso inquadrare te e poi lui mentre resto sulla scena. Posso anche parlare agli attori mentre riprendo per farli arrivare alla giusta profondità e continuare a riprendere senza staccare. Non ho il problema che mi finisce la pellicola. Quindi va tutto a favore della direzione degli attori, della scena...
Poi il tutto passa attraverso una macchina e può migliorare. Non è esattamente una qualità da Alta Definizione, però è comunque un miracolo che si riesca a migliorare la qualità mediante gli algoritmi.
L’inventore di questa macchina ha fatto un magnifico lavoro. Abbiamo effettuato dei test dove si possono fare delle correzioni ai colori. Si possono fare tante cose diverse con il telecinema. Ora si fanno tutte queste cose con il telecinema. E il risultato finale è quasi identico al film nel caso fosse stato girato su pellicola. Abbiamo effettuato dei test e il risultato è stato meraviglioso. Nelle scene scure la grana del digitale si mischierà con la grana della pellicola. Sarà stupendo.

È una fase molto ‘musicale’ nella costruzione delle immagini… tra l’altro lei cura sempre la tessitura sonora dei suoi film...
Lo faccio sempre. Le immagini e il suono vanno insieme. Il suono è come se fosse l’altra metà della storia. Deve ‘corrispondere’ alle immagini.
Secondo me quando si realizza un film, si dovrebbe pensare al suono così come si pensa all’illuminazione, alla stanza, a come gli attori si muovono sul set, a come parlano, al ritmo con cui parlano. Il suono è parte integrante di tutto questo, è legato a tutto questo. Quando si inserisce il suono sbagliato, si rompe l’armonia. Allora bisogna cercare di far scorrere il suono rendendolo giusto per creare l’armonia tra immagine e suono. Le cose vanno affrontate insieme.

Parlando di musica, ci siamo sempre domandati perché in Cuore selvaggio ha utilizzato Im Abendrot di Richard Strauss, tagliando il brano prima che inizi il cantato, ogni volta. Glielo chiediamo perché il testo del brano scritto da Eichendorff ha qualcosa di molto simile all’atmosfera del suo film.
Non era mia intenzione tagliare il brano quando comincia a cantare.
Avevo già raccontato questa storia all’uscita del film. Mi trovavo in Germania in una Mercedes nuova di zecca. Nevicava e a un certo punto la macchina si è fermata. Le persone che erano con me andarono in un palazzo lasciandomi da solo in macchina. I fiocchi di neve erano grandissimi.
Non potevo sentire i rumori che provenivano da fuori. Avevano lasciato accesa la radio e il riscaldamento. Poi sentii alla radio questo brano di Richard Strauss. Alzai il volume dell’ottimo impianto stereo della Mercedes. Non so se piansi, forse sì. Una musica bellissima, non l’avevo mai sentita prima.

È uno dei suoi lavori migliori.
Volli assolutamente inserire il brano nel film. E alla fine ebbe il suo effetto sui personaggi, sull’atmosfera, sull’umore del film, dandogli uno spessore molto più ampio. Ma non ci fu mai possibilità nel film di farlo sentire tutto. Ma questa è anche una particolarità delle scene così come le concepisco io. In INLAND EMPIRE, per esempio, c’è una canzona intitolata Locomotion. All’inizio questa canzone durava di più, ma a un certo punto bisognava lasciar continuare il film, non si poteva far sentire tutta la canzone, è contro le mie regole. È meglio fermare la musica per andare avanti che far sentire tutta una canzone. Questo vale anche per il brano di Richard Strauss. Dopo aver soddisfatto la sua necessità istantanea, bisognava andare avanti.

A proposito dell’intero processo di creazione, lei ha fatto fumetti, quadri, ha creato mobili, composto musica, sviluppato un videogioco. Tutti questi formati differenti (anche se non necessariamente diversi) tra loro, sono in un certo modo e allo stesso tempo uguali…
Nel mondo del cinema c’è una società chiamata Seven Arts. Loro dicono di mettere insieme sette arti. Ti fa capire che non sarebbe difficile passando dal cinema interessarsi alla fotografia, e sarebbe facile interessarsi anche al suono, alla musica, all’architettura, al mobilio, alla creazione di vestiti... Io penso che dal cinema si può cominciare a interessarsi anche all’agricoltura. Il cinema apre tanti mondi.



6 commenti:

Weltall ha detto...

Quest' uomo è un GENIO!!!
Leggere le sue parole è sempre illuminante!!!
Saluti ^__^

Luciano ha detto...

Intervista interessante e affascinante. Ti ringrazio per questo utilissimo post su INLAND, perché quel numero di filmcritica me lo sono perso e non possedevo questa intervista.

Francesco Dongiovanni ha detto...

figurati...

ciao e a presto

Anonimo ha detto...

bellissima intervista! Non l'avevo ancora letta!

Unknown ha detto...

bellissima intervista, Lynch è un genio assoluto. Mi sono iscritto al blog con vero piacere!

Arwen Lynch ha detto...

Penso che INLAND EMPIRE sia il suo miglior film, ha avuto massima libertà per dirigerlo, scriverlo, insomma la summa del suo mondo, le prime volte che lo vedi ti sembra di essere reduce da un trip da lsd poi piano piano questa sensazione si attenua