GIULIANA (Monica Vitti): Non sta mai fermo. Mai. Mai, mai. Io non riesco a guardare a lungo il mare. Sennò tutto quello che succede a terra non mi interessa più.
CORRADO (Richard Harris): Delle volte mi domando se non sia inutile. La serietà che si mette in un lavoro, voglio dire. Non sembra anche a te ridicolo?
GIULIANA: Mi sembra di avere gli occhi bagnati. Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?
CORRADO: Tu dici "cosa devo guardare?". Io dico "come devo vivere?". E' la stessa cosa.
lunedì 30 giugno 2008
IL DESERTO ROSSO di MICHELANGELO ANTONIONI
venerdì 27 giugno 2008
Earth Intruders_ BJORK VIDEOGRAPHY_4
Sergio Di Lino da Cinemavvenire.it
Ogni cosa che fa è un evento, ne possiede tutti i crismi e la totale consapevolezza. Su Björk sono state spese tutte le parole di elogio possibili e immaginabili, quindi sarebbe pleonastico ricondurre ogni discorso a quanto sia brava/creativa/innovativa e così via. Quello che ci preme sottolineare è come ogni sua nuova uscita sposti l’asse percettivo del suo lavoro, riconfigurando le coordinate della sua musica secondo le ispirazioni dettate dalle contingenze delle ultime "esplorazioni" sonore della cantante islandese. Björk è un’instancabile ricercatrice, che coniuga alla perfezione istinto e calcolo, ed è per questo motivo che la sua musica traccia uno dei solchi più profondi dell’orizzonte sonoro contemporaneo. Ciò la rende figura "intellettuale" e "popolare" al tempo stesso, come se all’interno del suo DNA musicale convivessero entrambe le anime, e anziché cercare una virtuosa forma di ripartizione degli spazi e degli ambiti facessero a gara per sopraffarsi a vicenda.
Non avremmo neanche bisogno di prove per suffragare quanto affermato, ma per chi ancora avesse dei dubbi provi ad "assaggiare" il sesto album della cantante, intitolato Volta, che manca un ulteriore scarto rispetto alla produzione precedente, in particolare il predecessore Medùlla. Se infatti l’album del 2005 era tutto incentrato sulla sperimentazione (quasi) esclusivamente vocale, come un viaggio – a tratti persino estenuante – attraverso le infinite variazioni e declinazioni della voce umana nelle varie epoche e culture (arricchito in ciò da una moltitudine di guest stars), questa nuova produzione si muove in direzione totalmente opposta, stratificando il suono e imbottendolo di strumentazioni inusuali e spesso fra loro inconiugabili. Sembra quasi di assistere alle svisate naïf di alcuni dei brani dei suoi esordi da solista, come Human Behavior, ma con una consapevolezza delle proprie potenzialità addirittura superiore. Ritmi africani, orientali, percussioni, ottoni, un pastiche che si riverbera da un brano all’altro, senza soluzione di continuità.
Il video è a sua volta l’ennesimo esperimento visivo, condotto da un regista di lusso, nella fattispecie il sessantenne francese Michel Ocelot, che sfrutta l’occasione offertale dalla cantante islandese per orchestrare un’ispirata variazione sul tema "grafico" centrale in alcune sue opere quali Principi e principesse e Azur e Asmar. Il gioco sulle silhouettes, di ambientazione ancora una volta africana, proprio come nei lungometraggi di Ocelot, è innanzitutto un espediente per giocare sul ritmo, in controtendenza all’andatura sostenuta del brano di Björk: se infatti questo è caratterizzato da un incedere incalzante e ossessivo, il breve film di Ocelot vi oppone uno scorrimento estremamente fluido, quasi teso a negare il concetto stesso di ritmo; o meglio, alla ricerca di un suo ritmo interno, avulso e indipendente dalle pulsazioni della canzone.
Il risultato, diciamolo senza vergogna, rasenta la perfezione assoluta: dalla crasi fra le immagini di Ocelot e la musica di Björk scaturisce un distillato di poesia pura. Difficile dire – e qui si attesta il limite invalicabile dell’analisi – se sia l’insieme a determinare un surplus rispetto alla somma delle parti. Ma è innegabile che, per l’ennesima volta, Björk sia riuscita a offrirci della sua musica una dimensione ulteriore, una sovrastrutturazione di significati che è tutta insita nell’orizzonte delle emozioni. E pensare che c’è ancora qualcuno che la accusa di essere troppo "fredda"…
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lunedì 23 giugno 2008
3 FILM DI CHRIS MARKER (2)_Sans Soleil
In questo film sono in gioco così tante immagini che non riusciamo mai a capire se a trasportarci, in un dato momento, è la corrente principale o un qualche rivolo secondario. Il film di Marker è un'opera polifonica la cui particolarità sta nell'unione tra l'mmagine e la parola o meglio fra sequenze di immagini e sequenze di parole. Entrambe le cose, le immagini e il commento parlato, si muovono lungo direzioni radicalmente diverse e, apparentemente, in modo indipendente le une dall'altro. Talvolta si trovano in sincrono, ma godono sempre della massima autonomia le une rispetto all'altro. Un linguaggio bello, che racconta liberamente le cose e riflette su se stesso, scorre in parallelo a sequenze di immagini che affascinanao in modo insolito e che ubbidiscono in tutto e per tutto alle regole del linguaggio del cinema. [...] La parola qui non funge da commento come avviene perlopiù nel documenario o nell'inchiesta televisiva. Le immagini non comprovano "affermazioni" e non illustrano "storie", ma hanno un valore autonomo. Ne nasce una sensazione inaspettata: questo film non è la somma di parole e di immagini, ma è una terza cosa. Nasce nello spazio tra queste due realtà che i nostri sensi registrano. Il film di Marker è qualcosa di invisibile, di inudibile. Il risultato dell'interferenza tra immagini e parole, come non l'avevo mai vista.
Edgar Reitz, in Programm Stadtkino (Wien), n°197 ("Essay-Filme"), 20-30 maggio 1991; trad. dal tedesco di Francesco Bono in Chris Marker, a cura di Bernard Eisenschitz. Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 1996, Dino Audino Editore, pp. 132-133.
giovedì 19 giugno 2008
3 FILM DI CHRIS MARKER (1)_ La jetée
UN FOTO-ROMANZO DI CHRIS MARKER
La Jetée del titolo è la piattaforma dell'aereoporto di Orly. La lunga piattaforma si proietta su quella terra di nessuno in cemento, punto di partenza per altri mondi. L'eroe è un piccolo ragazzo, in visita all'aereoporto coi genitori; improvvisamente c'è il bagliore frammentato di un uomo che cade. E' successo un incidente, ma mentre tutti corrono dall'uomo morto, il ragazzino si fissa invece sul viso di una giovane donna vicina al parapetto. Qualcosa di quella faccia, la sua espressione di ansia, rimorso e sollievo, e soprattutto l'ovvio ma non dichiarato legame della giovane donna col morto, crea un'immagine di straordinaria potenza nella mente del ragazzo.
Anni più tardi, scoppia la terza guerra mondiale. Parigi è quasi cancellata da un immenso olocausto. Qualche superstite resiste nelle gallerie circolari sotto il Palais de Chaillot, come fossero topi di laboratorio di una sorta di labirinto dal tempo deformato. I vincitori, distinguibili per le strani lenti oculari che portano, cominciano a condurre una serie di esperimenti sui sopravvissuti, tra cui l'eroe, ora sulla trentina. Di fronte a un mondo distrutto, gli sperimentatori sperano di mandare un uomo attraverso il tempo. Mandano il giovane per il potente ricordo che continua ad avere della piattaforma di Orly. Con un po' di fortuna ci arriverà. Altri volontari sono diventati pazzi, ma la forza straordinaria del suo ricordo lo porta alla Parigi prebellica...
Arrivando a Parigi, vaga tra la folla estranea, incapace di prendere contatto con chiunque finchè non incontra la giovane donna che aveva visto da bambino all'aereoporto di Orly. Si innamorano, ma il loro rapporto è guastato dal suo senso di isolamento nel tempo, la sua consapevolezza che ha commesso una sorta di crimine psicologico nell'inseguire il suo ricordo. In una specie di tentativo di collocarsi nel tempo, porta la giovane donna nel museo di paleontologia e passano giorni tra piante e animali fossili. Visitano l'aereoporto di Orly, dove decide che non ritornerà dagli sperimentatori al Chaillot. In questo momento appaiono tre strane figure. Agenti di un futuro anche più lontano pattugliano i canali temporali e sono venuti per costringerlo a tornare. Piuttosto che lasciare la giovane donna, si getta dal pilastro. Il corpo che cade è quello che aveva intravisto da piccolo...
J.G. Ballard, pubblicato in New Worlds, luglio 1966; tr. it. in J.G. Ballard, Re/Search, Shake Edizioni Underground, Milano 1994.
[...] Questo film condensa in 29 minuti: una storia d'amore, un tragitto verso l'infanzia, un'attrazione travolgente per l'immagine unica (l'unico dell'immagine), una rappresentazione composita della guerra, del pericolo nucleare e dei campi di concentramento, un omaggio al cinema (Hitchcock, Langlois, Ledoux, ecc.), alla fotografia (Capa), un approccio alla memoria, una passione per i musei, un'attrazione per gli animali e in tutto questo un senso eccezionale dell'istante [...] la fotografia possiede una dimensione documentaria ineluttabile. Non duplica il tempo, come fa il film: lo sospende, lo frantuma, lo gela e nel far questo lo "documenta". Essa costituisce, se così si può dire, una verità assoluta per ciascuno degli istanti sui quali assicura la sua presa. "La fotografia è la verità" (faceva dire Godard a Michei Subor mentre inseguiva Anna Karina con la sua macchina fotografica in Le petit soldat). Ma che cosa vuol dire realmente ciò che viene detto subito dopo: "il cinema è la verità 24 volte al secondo"? Una cosa impossibile, perchè il cinema nasconde quello che la fotografia mostra: ogni immagine per se stessa, nella sua nuda verità, che soccombe allo scorrimento. A meno che il cinema possa, nel suo stesso scorrimento, avvicinarsi a questa verità, attraverso diversi mezzi, il più sicuro e in ogni caso il più sorprendente dei quali ci si immagina che sia il raccontare una storia fatta di istanti raggelati, fin dalla loro ripresa, quale che sia la "vita" di cui si trovano dotati grazie al montaggio, la musica, il testo e la voce. Quello che fa La jetée , due anni dopo che "il piccolo soldato" della rivoluzione del cinema aveva lanciato la sua formula. E allo stesso tempo una maniera (di nuovo non è la sola, ma una delle più radicali e senza dubbio la più sorprendente in modo allo stesso tempo astratto e materiale) di verificare una seconda affermazione di Godard che bisogna mettere in relazione con la prima (si chiariscono a vicenda): un film deve sempre essere il documentario delle proprie riprese.
Raymond Bellour, in L'Entre-Images, La Différence, Paris 1990. Tr. it. in Chris Marker a cura di Bernard Eisenschitz, Mostra Intrnazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 1996, Dino Audino Editore, pp. 96-97.
La Jetée del titolo è la piattaforma dell'aereoporto di Orly. La lunga piattaforma si proietta su quella terra di nessuno in cemento, punto di partenza per altri mondi. L'eroe è un piccolo ragazzo, in visita all'aereoporto coi genitori; improvvisamente c'è il bagliore frammentato di un uomo che cade. E' successo un incidente, ma mentre tutti corrono dall'uomo morto, il ragazzino si fissa invece sul viso di una giovane donna vicina al parapetto. Qualcosa di quella faccia, la sua espressione di ansia, rimorso e sollievo, e soprattutto l'ovvio ma non dichiarato legame della giovane donna col morto, crea un'immagine di straordinaria potenza nella mente del ragazzo.
Anni più tardi, scoppia la terza guerra mondiale. Parigi è quasi cancellata da un immenso olocausto. Qualche superstite resiste nelle gallerie circolari sotto il Palais de Chaillot, come fossero topi di laboratorio di una sorta di labirinto dal tempo deformato. I vincitori, distinguibili per le strani lenti oculari che portano, cominciano a condurre una serie di esperimenti sui sopravvissuti, tra cui l'eroe, ora sulla trentina. Di fronte a un mondo distrutto, gli sperimentatori sperano di mandare un uomo attraverso il tempo. Mandano il giovane per il potente ricordo che continua ad avere della piattaforma di Orly. Con un po' di fortuna ci arriverà. Altri volontari sono diventati pazzi, ma la forza straordinaria del suo ricordo lo porta alla Parigi prebellica...
Arrivando a Parigi, vaga tra la folla estranea, incapace di prendere contatto con chiunque finchè non incontra la giovane donna che aveva visto da bambino all'aereoporto di Orly. Si innamorano, ma il loro rapporto è guastato dal suo senso di isolamento nel tempo, la sua consapevolezza che ha commesso una sorta di crimine psicologico nell'inseguire il suo ricordo. In una specie di tentativo di collocarsi nel tempo, porta la giovane donna nel museo di paleontologia e passano giorni tra piante e animali fossili. Visitano l'aereoporto di Orly, dove decide che non ritornerà dagli sperimentatori al Chaillot. In questo momento appaiono tre strane figure. Agenti di un futuro anche più lontano pattugliano i canali temporali e sono venuti per costringerlo a tornare. Piuttosto che lasciare la giovane donna, si getta dal pilastro. Il corpo che cade è quello che aveva intravisto da piccolo...
J.G. Ballard, pubblicato in New Worlds, luglio 1966; tr. it. in J.G. Ballard, Re/Search, Shake Edizioni Underground, Milano 1994.
[...] Questo film condensa in 29 minuti: una storia d'amore, un tragitto verso l'infanzia, un'attrazione travolgente per l'immagine unica (l'unico dell'immagine), una rappresentazione composita della guerra, del pericolo nucleare e dei campi di concentramento, un omaggio al cinema (Hitchcock, Langlois, Ledoux, ecc.), alla fotografia (Capa), un approccio alla memoria, una passione per i musei, un'attrazione per gli animali e in tutto questo un senso eccezionale dell'istante [...] la fotografia possiede una dimensione documentaria ineluttabile. Non duplica il tempo, come fa il film: lo sospende, lo frantuma, lo gela e nel far questo lo "documenta". Essa costituisce, se così si può dire, una verità assoluta per ciascuno degli istanti sui quali assicura la sua presa. "La fotografia è la verità" (faceva dire Godard a Michei Subor mentre inseguiva Anna Karina con la sua macchina fotografica in Le petit soldat). Ma che cosa vuol dire realmente ciò che viene detto subito dopo: "il cinema è la verità 24 volte al secondo"? Una cosa impossibile, perchè il cinema nasconde quello che la fotografia mostra: ogni immagine per se stessa, nella sua nuda verità, che soccombe allo scorrimento. A meno che il cinema possa, nel suo stesso scorrimento, avvicinarsi a questa verità, attraverso diversi mezzi, il più sicuro e in ogni caso il più sorprendente dei quali ci si immagina che sia il raccontare una storia fatta di istanti raggelati, fin dalla loro ripresa, quale che sia la "vita" di cui si trovano dotati grazie al montaggio, la musica, il testo e la voce. Quello che fa La jetée , due anni dopo che "il piccolo soldato" della rivoluzione del cinema aveva lanciato la sua formula. E allo stesso tempo una maniera (di nuovo non è la sola, ma una delle più radicali e senza dubbio la più sorprendente in modo allo stesso tempo astratto e materiale) di verificare una seconda affermazione di Godard che bisogna mettere in relazione con la prima (si chiariscono a vicenda): un film deve sempre essere il documentario delle proprie riprese.
Raymond Bellour, in L'Entre-Images, La Différence, Paris 1990. Tr. it. in Chris Marker a cura di Bernard Eisenschitz, Mostra Intrnazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 1996, Dino Audino Editore, pp. 96-97.
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sabato 14 giugno 2008
Innocence_BJORK VIDEOGRAPHY_3
Il video di INNOCENCE, secondo estratto da VOLTA, è stato scelto dall'artista islandese in seguito ad un concorso lanciato sul suo sito. I vincitori sono due video-artisti francesi, Fred & Annabelle, e questo è il loro lavoro.
lunedì 9 giugno 2008
MILLENNIUM MAMBO di HOU HSIAO-HSIEN
Un incipit incredibile.
Quante volte è possibile vederlo? Ogni volta cogliendo qualcosa che prima ci era sfuggito? Perchè sentire il bisogno di ritornarci? Per ritrovare che cosa? E perchè mi sembra di essere io lì dentro, che mi guardo guardare? Perchè poi mi fermo, e sparisci? Dove stai andando? E perchè sembri così felice? Dove ti trovi? In che città? Che ora è (laggiù)? Perchè ti volti a guardarmi? Dove vai? Chi sei?
Dev'essere un fantasma. E' il fantasma. Il fantasma del cinema. Che si ritorna a cercare. Sempre. Che è lì. E che non è mai davvero lì. Che lo insegui, sei lì ad un passo, potresti toccarlo, se vuoi, potresti allungare la mano. E alla fine invece si rimane in cima alle scale. Vorresti scenderle per continuare a seguirlo. Per sempre. E poi c'è il buio.
Più in là, verso la fine del film, lei imprimerà il suo volto nella neve. E noi cercheremo di riconoscere, nel bianco del fotogramma, le linee del suo volto.
Carlo Chatrian - Cineforum n. 406
Prima di raccontare la giovinezza di Vicky, divisa tra due amori e sentimenti contrastanti,
Millennium Mambo – dopo aver seguito la silhouette della protagonista lungo una pensilina – descrive una scena apparentemente
incongrua. Si tratta del numero di un prestigiatore che incanta un gruppo di giovani (tra cui Vicky) in un bar. Più che all'abilità
dell'incantatore lo sguardo va all'estasi degli spettatori. Hou Hsiao Hsien filma il trasporto emotivo dei ragazzi, inserendo l'intero film
sotto l'egida di questa sequenza. Oggetto dello sguardo non sarà solo (o non tanto) la realtà sociologica e psicologica di un gruppo di
giovani (attraverso un loro rappresentante), ma soprattutto l'incanto che s'interpone tra chi guarda e chi è visto. Un incanto che
mescola i concetti di distanza e prossimità: per tutto il film la macchina da presa – molto mobile – bracca da vicino la protagonista e
ciò nonostante per tutto il film la natura della ragazza (il motivo del suo agire) non viene svelata. Proprio come al cinema: stare più
vicino non significa vedere meglio, ma vedere altrimenti. Senza dubbio, partecipare di più.
Fin da questo incipit Millennium Mambo mostra la sua natura: il suo essere film sul cinema (su quel cinema che imita la passione e le
distorsioni proprie del ricordo). Non è necessario arrivare alla fantastica "strada"zeppa di manifesti in un villaggio innevato del Nord
del Giappone, per rendersi conto che il regista sta predisponendo un grande omaggio alla magia della settima arte; la conclusione
svela piuttosto l'altra faccia –invisibile, se non in negativo, come l'impronta del volto lasciata sulla neve –delle opere di Hou Hsiao
Hsien. Vale a dire la magia del cinema come impossibile presentificazione del ricordo. La voce narrante della protagonista sancisce le
coordinate temporali dei frammenti di storia visti, situandoli al passato. Insieme alla posizione della narratrice s'intuiscono anche le
manipolazioni compiute verso un racconto che credevamo lineare e che invece ha giustapposto frammenti autonomi. I tre fili
narrativi (l'amore-odio con il geloso e possessivo Hao-hao; l'amicizia con il protettivo e misterioso gangster Jack; la vacanza-fuga nel
Nord del Giappone) sono avvenimenti unici, che non si alternano se non nella forma che il ricordo dà loro. È sulle modalità con cui
questa forma perpetua l'inganno che il film si sofferma. Come al cinema – che magico non è ma che fa credere cose che non
esistono – come se fossimo dentro un film, vediamo concatenati avvenimenti che non lo sono. Ci domandiamo increduli come Vicky
continui a restare con Hao-hao, progettiamo una relazione stabile tra lei e Jack, ipotizziamo una possibile storia con l'amico
albergatore in Giappone. Completamente sovrapposti alla psiche di Vicky, partecipiamo delle sue illusioni, che riguardano un passato
concluso e molto diverso dalla realtà del presente invisibile (la ragazza vive con quel Hao-hao tanto odioso).
Affidandosi alla magia (e all'inganno che ogni ipnosi sottende) il regista dà al ricordo la libertà che solo il presente possiede. Il
cinema, arte del presente, riesce ad insufflare corpo e anima alle fantastiche alternative in cui la mente di Vicky fluttua. Partendo da
questa posizione si spiegano i trucchi messi in atto: come non è importante seguire una narrazione troppo franta, così non è
fondamentale anatomizzare le volute della mdp, rilevando gli eventuali raccordi nascosti. Oggetto della visione è il piacere ipnotico
delle immagini, che si succedono dando l'illusione – o l'impossibile verità – di spazi ed emozioni contigui. Come accade in uno dei
piani-sequenza più "azzardati" e "magici" del film, quando tra le luci abbaglianti della discoteca (che ripetono il flusso intermittente
di fotogrammi luminosi e nero del proiettore) e i riflessi sui corpi nudi dei due giovani la ripresa crea un'impossibile via di contatto,
dando l'impressione di spazi comunicanti con un solo gesto dello sguardo e del pensiero.
La manipolazione di una delle figure, cui il regista ha da sempre affidato il suo messaggio (il piano-sequenza), impone anche un altro
ordine di riflessioni. Soprattutto se raffrontato con il precedente Flowers of Shanghai, che di soli piani-sequenza era composto. In
quell'occasione si trattava di esplorare un'epoca lontana (la fine dell'Ottocento) e uno spazio unitario (una casa d'appuntamenti a
Shanghai). Procedendo per scene definite Hou Hsiao Hsien descriveva gli albori di un mondo, in cui gli uomini potevano ingannarsi
sui loro sentimenti,ma il visivo svelava le passioni che si agitavano nei loro cuori. In Flowers of Shanghai il piano-sequenza era la
garanzia di verità della perfetta corrispondenza tra visione ed essenza della situazione. Per come tratta lo spazio e il tempo,
Millennium Mambo rappresenta l'estremo opposto. Dal pre-cinema si arriva alla fine di un ciclo. Di fronte ad una realtà che ha
imparato ad ingannare non solo con le parole ma anche con le immagini, il soggetto non può che affondare in questo stesso inganno,
trovandovi le ragioni di un'altra verità. Il piano-sequenza resta, quindi, anche quando è pura illusione. È l'incanto, la magia per il
kinema (il movimento anche quando esso è apparente), ad evitare la disgregazione del cinema in collage (in questa direzione lavora
l'amico Edward Yang). Il millennio, che il film vuole omaggiare, si ripiega su stesso e ritrova la magia di Méliès, che inganna e
ingannando ci dice cose più vere sulla realtà della comunicazione. Su cosa è possibile e su cosa è importante dire. Potrebbe
sembrare un canto del cigno questo film "millenario" di Hou Hsiao Hsien, in quello «sguardo gettato a immobilizzare per sempre una
delle tante foglie che alitano nel vento, con comprensione e simpatia» (questa la sua dichiarazione sull'umore che lo ha
accompagnato) passato e futuro si danno la mano. È come se l'azione di proiettarsi in un tempo trascorso generasse da sé altre
ipotesi, da seguire come se fossero storie autonome. Nella completa libertà di racconto, concessa al suo personaggio (Millennium
Mambo è il film più scevro da ogni psicologia o struttura finalistica che si possa pensare) si ritrova il nucleo etico di questo maestro
orientale. Forse, vedendo film, altro non facciamo che ricostruire momenti del passato, dando loro una forma affatto nuova. Se il
cinema è atto intimo, associabile a fenomeni psichici così privati da tenerli protetti ai nostri stessi occhi, la «magnifica ossessione» di
Hou Hsiao Hsien è quella di non imporre una forma ai nostri sogni. Lasciarci liberi nell'affrontare il ricordo di un passato-futuro che ci
accompagna giorno dopo giorno.
Quante volte è possibile vederlo? Ogni volta cogliendo qualcosa che prima ci era sfuggito? Perchè sentire il bisogno di ritornarci? Per ritrovare che cosa? E perchè mi sembra di essere io lì dentro, che mi guardo guardare? Perchè poi mi fermo, e sparisci? Dove stai andando? E perchè sembri così felice? Dove ti trovi? In che città? Che ora è (laggiù)? Perchè ti volti a guardarmi? Dove vai? Chi sei?
Dev'essere un fantasma. E' il fantasma. Il fantasma del cinema. Che si ritorna a cercare. Sempre. Che è lì. E che non è mai davvero lì. Che lo insegui, sei lì ad un passo, potresti toccarlo, se vuoi, potresti allungare la mano. E alla fine invece si rimane in cima alle scale. Vorresti scenderle per continuare a seguirlo. Per sempre. E poi c'è il buio.
Più in là, verso la fine del film, lei imprimerà il suo volto nella neve. E noi cercheremo di riconoscere, nel bianco del fotogramma, le linee del suo volto.
Carlo Chatrian - Cineforum n. 406
Prima di raccontare la giovinezza di Vicky, divisa tra due amori e sentimenti contrastanti,
Millennium Mambo – dopo aver seguito la silhouette della protagonista lungo una pensilina – descrive una scena apparentemente
incongrua. Si tratta del numero di un prestigiatore che incanta un gruppo di giovani (tra cui Vicky) in un bar. Più che all'abilità
dell'incantatore lo sguardo va all'estasi degli spettatori. Hou Hsiao Hsien filma il trasporto emotivo dei ragazzi, inserendo l'intero film
sotto l'egida di questa sequenza. Oggetto dello sguardo non sarà solo (o non tanto) la realtà sociologica e psicologica di un gruppo di
giovani (attraverso un loro rappresentante), ma soprattutto l'incanto che s'interpone tra chi guarda e chi è visto. Un incanto che
mescola i concetti di distanza e prossimità: per tutto il film la macchina da presa – molto mobile – bracca da vicino la protagonista e
ciò nonostante per tutto il film la natura della ragazza (il motivo del suo agire) non viene svelata. Proprio come al cinema: stare più
vicino non significa vedere meglio, ma vedere altrimenti. Senza dubbio, partecipare di più.
Fin da questo incipit Millennium Mambo mostra la sua natura: il suo essere film sul cinema (su quel cinema che imita la passione e le
distorsioni proprie del ricordo). Non è necessario arrivare alla fantastica "strada"zeppa di manifesti in un villaggio innevato del Nord
del Giappone, per rendersi conto che il regista sta predisponendo un grande omaggio alla magia della settima arte; la conclusione
svela piuttosto l'altra faccia –invisibile, se non in negativo, come l'impronta del volto lasciata sulla neve –delle opere di Hou Hsiao
Hsien. Vale a dire la magia del cinema come impossibile presentificazione del ricordo. La voce narrante della protagonista sancisce le
coordinate temporali dei frammenti di storia visti, situandoli al passato. Insieme alla posizione della narratrice s'intuiscono anche le
manipolazioni compiute verso un racconto che credevamo lineare e che invece ha giustapposto frammenti autonomi. I tre fili
narrativi (l'amore-odio con il geloso e possessivo Hao-hao; l'amicizia con il protettivo e misterioso gangster Jack; la vacanza-fuga nel
Nord del Giappone) sono avvenimenti unici, che non si alternano se non nella forma che il ricordo dà loro. È sulle modalità con cui
questa forma perpetua l'inganno che il film si sofferma. Come al cinema – che magico non è ma che fa credere cose che non
esistono – come se fossimo dentro un film, vediamo concatenati avvenimenti che non lo sono. Ci domandiamo increduli come Vicky
continui a restare con Hao-hao, progettiamo una relazione stabile tra lei e Jack, ipotizziamo una possibile storia con l'amico
albergatore in Giappone. Completamente sovrapposti alla psiche di Vicky, partecipiamo delle sue illusioni, che riguardano un passato
concluso e molto diverso dalla realtà del presente invisibile (la ragazza vive con quel Hao-hao tanto odioso).
Affidandosi alla magia (e all'inganno che ogni ipnosi sottende) il regista dà al ricordo la libertà che solo il presente possiede. Il
cinema, arte del presente, riesce ad insufflare corpo e anima alle fantastiche alternative in cui la mente di Vicky fluttua. Partendo da
questa posizione si spiegano i trucchi messi in atto: come non è importante seguire una narrazione troppo franta, così non è
fondamentale anatomizzare le volute della mdp, rilevando gli eventuali raccordi nascosti. Oggetto della visione è il piacere ipnotico
delle immagini, che si succedono dando l'illusione – o l'impossibile verità – di spazi ed emozioni contigui. Come accade in uno dei
piani-sequenza più "azzardati" e "magici" del film, quando tra le luci abbaglianti della discoteca (che ripetono il flusso intermittente
di fotogrammi luminosi e nero del proiettore) e i riflessi sui corpi nudi dei due giovani la ripresa crea un'impossibile via di contatto,
dando l'impressione di spazi comunicanti con un solo gesto dello sguardo e del pensiero.
La manipolazione di una delle figure, cui il regista ha da sempre affidato il suo messaggio (il piano-sequenza), impone anche un altro
ordine di riflessioni. Soprattutto se raffrontato con il precedente Flowers of Shanghai, che di soli piani-sequenza era composto. In
quell'occasione si trattava di esplorare un'epoca lontana (la fine dell'Ottocento) e uno spazio unitario (una casa d'appuntamenti a
Shanghai). Procedendo per scene definite Hou Hsiao Hsien descriveva gli albori di un mondo, in cui gli uomini potevano ingannarsi
sui loro sentimenti,ma il visivo svelava le passioni che si agitavano nei loro cuori. In Flowers of Shanghai il piano-sequenza era la
garanzia di verità della perfetta corrispondenza tra visione ed essenza della situazione. Per come tratta lo spazio e il tempo,
Millennium Mambo rappresenta l'estremo opposto. Dal pre-cinema si arriva alla fine di un ciclo. Di fronte ad una realtà che ha
imparato ad ingannare non solo con le parole ma anche con le immagini, il soggetto non può che affondare in questo stesso inganno,
trovandovi le ragioni di un'altra verità. Il piano-sequenza resta, quindi, anche quando è pura illusione. È l'incanto, la magia per il
kinema (il movimento anche quando esso è apparente), ad evitare la disgregazione del cinema in collage (in questa direzione lavora
l'amico Edward Yang). Il millennio, che il film vuole omaggiare, si ripiega su stesso e ritrova la magia di Méliès, che inganna e
ingannando ci dice cose più vere sulla realtà della comunicazione. Su cosa è possibile e su cosa è importante dire. Potrebbe
sembrare un canto del cigno questo film "millenario" di Hou Hsiao Hsien, in quello «sguardo gettato a immobilizzare per sempre una
delle tante foglie che alitano nel vento, con comprensione e simpatia» (questa la sua dichiarazione sull'umore che lo ha
accompagnato) passato e futuro si danno la mano. È come se l'azione di proiettarsi in un tempo trascorso generasse da sé altre
ipotesi, da seguire come se fossero storie autonome. Nella completa libertà di racconto, concessa al suo personaggio (Millennium
Mambo è il film più scevro da ogni psicologia o struttura finalistica che si possa pensare) si ritrova il nucleo etico di questo maestro
orientale. Forse, vedendo film, altro non facciamo che ricostruire momenti del passato, dando loro una forma affatto nuova. Se il
cinema è atto intimo, associabile a fenomeni psichici così privati da tenerli protetti ai nostri stessi occhi, la «magnifica ossessione» di
Hou Hsiao Hsien è quella di non imporre una forma ai nostri sogni. Lasciarci liberi nell'affrontare il ricordo di un passato-futuro che ci
accompagna giorno dopo giorno.
sabato 7 giugno 2008
Declare Independence_BJORK VIDEOGRAPHY_2
L'ultima di una lunga serie di collaborazioni (che in futuro esploreremo nella loro interezza) tra Bjork e Michel Gondry...
Sergio Di Lino da Cinemavvenire
"Impossibile da comprendere razionalmente" e "semplicemente geniale" sono due tra le locuzioni più ricorrenti quando si parla di Michel Gondry o di Björk, specialmente nelle non infrequenti circostanze in cui il cineasta francese e la musicista islandese si ritrovano a collaborare a un medesimo progetto. Talvolta le due locuzioni sono unite da un rapporto sillogico, in virtù del quale l’una è la scaturigine dell’altra. Il difficile è disancorarsi da questa selva di considerazioni, che ogni anno che passa rischiano sempre più di farsi luogo comune, specie se ci si trova a dover ricominciare daccapo al cospetto dell’ennesimo video spiazzante e disturbante dei due.
Eccoci allora a parlare di Declare Independence di Björk, video diretto da Michel Gondry di un brano tratto dal fortunato – ma meno di altri – album Volta. Ce la potremmo cavare sostenendo che il video è semplicemente "impossibile da spiegare" e va soltanto esperito come esperienza subliminale, oppure ricorrere a un cut’n paste delle più pittoresche definizioni che si trovano sul web (del tenore: "The Icelandic queen commands her colorful marionette army by screaming into a stylish megaphone"). Non renderemmo giustizia a questo Hellzapoppin’ di situazioni, fra gonzi in tuta con un casco in testa che saltellano (più o meno) a ritmo, Björk che ulula come un’ossessa dentro un megafono – effettivamente stylish, non c’è che dire – collegato a tutti gli altri elementi da un paio di fasci di cavi, un disgraziato bassista sospeso in aria, alcuni action painters che lasciano delle strisce di colore su un nastro bianco che scorre davanti a loro, degli spruzzatori che irrorano di colore i cavi di cui sopra… Ci sarebbe materiale per riempire una dozzina di sedute di psicanalisi, dunque è meglio lasciar perdere…
Semmai, concentriamoci sul look del video, che qualcosa di nuovo da dire lo ha anche se non afferisce all’aspetto enunciativo dello stesso. Qui la posta in gioco è, al contrario, proprio l’apparato visuale della messa in scena di Gondry, che per Declare Independence rinuncia, un po’ a sorpresa, all’abituale rifugio nella dimensione onirica dell’immagine. Opaco, per nulla fluido o evocativo, il video di Declare Independence poggia su una stolida assertività, su un’ambientazione techno-industrial che pare una versione edulcorata e – bene o male – "digeribile" dell’universo musicale degli Einstürzende Neubauten. Come se del sogno, e della visionarietà a esso collegata, nell’epoca della rivoluzione tecnologica non restassero che le eccentriche immagini di superficie, simulacri che si autoesiliano volontariamente dalla loro immaginifica scaturigine.
Insomma, stando al solo Declare Independence, c’è aria di cambiamento in seno allo sguardo di Gondry: lo avevamo auspicato all’epoca di The Science of Sleep; ora non sappiamo se temerlo o attenderlo con ansia…
Sergio Di Lino da Cinemavvenire
"Impossibile da comprendere razionalmente" e "semplicemente geniale" sono due tra le locuzioni più ricorrenti quando si parla di Michel Gondry o di Björk, specialmente nelle non infrequenti circostanze in cui il cineasta francese e la musicista islandese si ritrovano a collaborare a un medesimo progetto. Talvolta le due locuzioni sono unite da un rapporto sillogico, in virtù del quale l’una è la scaturigine dell’altra. Il difficile è disancorarsi da questa selva di considerazioni, che ogni anno che passa rischiano sempre più di farsi luogo comune, specie se ci si trova a dover ricominciare daccapo al cospetto dell’ennesimo video spiazzante e disturbante dei due.
Eccoci allora a parlare di Declare Independence di Björk, video diretto da Michel Gondry di un brano tratto dal fortunato – ma meno di altri – album Volta. Ce la potremmo cavare sostenendo che il video è semplicemente "impossibile da spiegare" e va soltanto esperito come esperienza subliminale, oppure ricorrere a un cut’n paste delle più pittoresche definizioni che si trovano sul web (del tenore: "The Icelandic queen commands her colorful marionette army by screaming into a stylish megaphone"). Non renderemmo giustizia a questo Hellzapoppin’ di situazioni, fra gonzi in tuta con un casco in testa che saltellano (più o meno) a ritmo, Björk che ulula come un’ossessa dentro un megafono – effettivamente stylish, non c’è che dire – collegato a tutti gli altri elementi da un paio di fasci di cavi, un disgraziato bassista sospeso in aria, alcuni action painters che lasciano delle strisce di colore su un nastro bianco che scorre davanti a loro, degli spruzzatori che irrorano di colore i cavi di cui sopra… Ci sarebbe materiale per riempire una dozzina di sedute di psicanalisi, dunque è meglio lasciar perdere…
Semmai, concentriamoci sul look del video, che qualcosa di nuovo da dire lo ha anche se non afferisce all’aspetto enunciativo dello stesso. Qui la posta in gioco è, al contrario, proprio l’apparato visuale della messa in scena di Gondry, che per Declare Independence rinuncia, un po’ a sorpresa, all’abituale rifugio nella dimensione onirica dell’immagine. Opaco, per nulla fluido o evocativo, il video di Declare Independence poggia su una stolida assertività, su un’ambientazione techno-industrial che pare una versione edulcorata e – bene o male – "digeribile" dell’universo musicale degli Einstürzende Neubauten. Come se del sogno, e della visionarietà a esso collegata, nell’epoca della rivoluzione tecnologica non restassero che le eccentriche immagini di superficie, simulacri che si autoesiliano volontariamente dalla loro immaginifica scaturigine.
Insomma, stando al solo Declare Independence, c’è aria di cambiamento in seno allo sguardo di Gondry: lo avevamo auspicato all’epoca di The Science of Sleep; ora non sappiamo se temerlo o attenderlo con ansia…
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lunedì 2 giugno 2008
Wanderlust_BJORK VIDEOGRAPHY_1
Iniziamo, partendo dall'ultimo incredibile videoclip di Bjork, una galleria di tutti i video dell'artista islandese che periodicamente raccoglieremo sul nostro blog. Lavori mozzafiato, in collaborazione con registi importanti, come Michel Gondry o Chris Cunningham, al confine tra videoarte, animazione e ricerca sperimentale.
Emiliano Bertocchi da Sentieri Selvaggi
In una terra fantastica e fiabesca, lisergica nelle atmosfere e nei colori, strani animali (degli yak, forse) cercano di abbeverarsi ad una pozza d’acqua. Il suono di un corno alimenta il mistero del luogo nel quale si trovano. Un essere con un inconsueto vestito si muove tra gli animali, si avvicina all’acqua e con le mani inizia a scavare un piccolo canale. E’ Bjork, in un incredibile costume da antico pastore mongolo. Gli animali la guardano mansueti.
Si allargano gli spazi della visione, non più gli animali a mimetizzarsi con i prati e le rocce ma un fiume che scorre, magico e potente. Gli animali e Bjork si avvicinano e si immergono nelle sue acque. In lontananza si vedono delle montagne. Dallo zaino che Bjork porta dietro la schiena escono due braccia, poi un corpo. E’ il painbody di Bjork. Ovvero un’entità che si nutre di pensieri compulsivi Dell’energia di questi pensieri. In una simbiosi acrobatica, fatta di capriole, i due corpi sembrano conoscersi, parlarsi, mentre la visione continua, mentre il mondo intorno appare nelle sue meravigliose forme, come in un viaggio acido, si guardano le cose con occhi da bambini, sbalorditi, estasiati.
Dalle acque del fiume si erge poi una maschera orientale, forse una divinità, per poi scomparire subito dopo. Un’apparizione. Un presagio.
Una lotta nasce tra Bjork e il suo painbody. Poi di nuovo la maschera, delle mani scavano un altro canale. Il momento della creazione. Divina o umana che sia, sono sempre le mani a renderla possibile.
Una cascata, la velocità del fiume che aumenta. Il volto della maschera sospeso. Bjork sull’orlo della cascata. La caduta. Il painbody che cade con lei. I due corpi si aggrappano. Una lotta. Un appiglio. Poi un tunnel d’acqua. Delle mani e una luce al termine del tunnel. Forse la fine del viaggio. Forse l’inizio di una nuova creazione.
Per la realizzazione del video di Wanderlust, Bjork si è affidata alle competenze dello studio Encyclopedia Pictura (formato da Isahiah Saxon e Sean Hellfritsch) di San Francisco, a cui ha dato una libertà totale nella creazione della loro opera. L’estetica delle immagini è ispirata ai lavori di Hayao Miyazaki per poi essere sviluppata grazie ad un mix di diverse tecniche. Prima di tutto c’è un ritorno all'artigianalità, alla manualità della creazione artistica mentre vengono affidati al digitale la postproduzione, l’editing, il lavoro sui colori e alcune animazioni. In un capannone sono stati infatti costruiti i corpi degli animali, i costumi del painbody e di Bjork e la maschera della divinità. I materiali utilizzati sono soprattutto plastici (gomma, fibra di vetro, PVC, resine acriliche, silicone). Ogni modello è stato realizzato a mano. Poi c’è il momento delle riprese e ci si affida al green screen, davanti al quale Bjork compie i suoi movimenti che poi verranno inseriti, digitalmente, nel contesto finale. Il digitale è stato usato anche per la creazione del fiume e della cascata, con appositi programmi che hanno simulato il movimento dell’acqua.
Il video è presentato in due versioni, una normale e l’altra in 3D (per realizzare la quale è stata costruita un’apposita videocamera, assemblando un paio di Silicon Imaging 2K Mini camera e usando lenti super 16mm per aumentare la definizione dell’immagine), da vedere con gli indispensabili occhialini. Wanderlust è un prodotto ibrido, a metà strada tra le creazioni artigianali del passato e le nuove possibilità del digitale. Guardando questo video sembra di trovarsi davanti agli spettacoli creati dalle lanterne magiche, oggetti capaci di proiettare mondi e visioni, luoghi fantastici dove lasciare libera la propria fantasia, finalmente lontani dalla realtà, persi in quella meraviglia, in quello stupore, che solo le immagini sanno far nascere.
Emiliano Bertocchi da Sentieri Selvaggi
In una terra fantastica e fiabesca, lisergica nelle atmosfere e nei colori, strani animali (degli yak, forse) cercano di abbeverarsi ad una pozza d’acqua. Il suono di un corno alimenta il mistero del luogo nel quale si trovano. Un essere con un inconsueto vestito si muove tra gli animali, si avvicina all’acqua e con le mani inizia a scavare un piccolo canale. E’ Bjork, in un incredibile costume da antico pastore mongolo. Gli animali la guardano mansueti.
Si allargano gli spazi della visione, non più gli animali a mimetizzarsi con i prati e le rocce ma un fiume che scorre, magico e potente. Gli animali e Bjork si avvicinano e si immergono nelle sue acque. In lontananza si vedono delle montagne. Dallo zaino che Bjork porta dietro la schiena escono due braccia, poi un corpo. E’ il painbody di Bjork. Ovvero un’entità che si nutre di pensieri compulsivi Dell’energia di questi pensieri. In una simbiosi acrobatica, fatta di capriole, i due corpi sembrano conoscersi, parlarsi, mentre la visione continua, mentre il mondo intorno appare nelle sue meravigliose forme, come in un viaggio acido, si guardano le cose con occhi da bambini, sbalorditi, estasiati.
Dalle acque del fiume si erge poi una maschera orientale, forse una divinità, per poi scomparire subito dopo. Un’apparizione. Un presagio.
Una lotta nasce tra Bjork e il suo painbody. Poi di nuovo la maschera, delle mani scavano un altro canale. Il momento della creazione. Divina o umana che sia, sono sempre le mani a renderla possibile.
Una cascata, la velocità del fiume che aumenta. Il volto della maschera sospeso. Bjork sull’orlo della cascata. La caduta. Il painbody che cade con lei. I due corpi si aggrappano. Una lotta. Un appiglio. Poi un tunnel d’acqua. Delle mani e una luce al termine del tunnel. Forse la fine del viaggio. Forse l’inizio di una nuova creazione.
Per la realizzazione del video di Wanderlust, Bjork si è affidata alle competenze dello studio Encyclopedia Pictura (formato da Isahiah Saxon e Sean Hellfritsch) di San Francisco, a cui ha dato una libertà totale nella creazione della loro opera. L’estetica delle immagini è ispirata ai lavori di Hayao Miyazaki per poi essere sviluppata grazie ad un mix di diverse tecniche. Prima di tutto c’è un ritorno all'artigianalità, alla manualità della creazione artistica mentre vengono affidati al digitale la postproduzione, l’editing, il lavoro sui colori e alcune animazioni. In un capannone sono stati infatti costruiti i corpi degli animali, i costumi del painbody e di Bjork e la maschera della divinità. I materiali utilizzati sono soprattutto plastici (gomma, fibra di vetro, PVC, resine acriliche, silicone). Ogni modello è stato realizzato a mano. Poi c’è il momento delle riprese e ci si affida al green screen, davanti al quale Bjork compie i suoi movimenti che poi verranno inseriti, digitalmente, nel contesto finale. Il digitale è stato usato anche per la creazione del fiume e della cascata, con appositi programmi che hanno simulato il movimento dell’acqua.
Il video è presentato in due versioni, una normale e l’altra in 3D (per realizzare la quale è stata costruita un’apposita videocamera, assemblando un paio di Silicon Imaging 2K Mini camera e usando lenti super 16mm per aumentare la definizione dell’immagine), da vedere con gli indispensabili occhialini. Wanderlust è un prodotto ibrido, a metà strada tra le creazioni artigianali del passato e le nuove possibilità del digitale. Guardando questo video sembra di trovarsi davanti agli spettacoli creati dalle lanterne magiche, oggetti capaci di proiettare mondi e visioni, luoghi fantastici dove lasciare libera la propria fantasia, finalmente lontani dalla realtà, persi in quella meraviglia, in quello stupore, che solo le immagini sanno far nascere.
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