sabato 28 novembre 2009

GREEN GRASS OF TUNNEL_mùm

visti ieri sera a Bari...



behind these two hills here
there's a pool
and when I'm swimming in through the tunnel...
I shut my eyes

(Il video èstato realizzato dal team di Joe Gerhardt e Ruth Jarman raccolto sotto la sigla Semiconductor)

giovedì 26 novembre 2009

I PADRONI DELLA NOTTE di James Gray














NEW YORK, UNA CITTA' NERO PECE di Giulia D'Agnolo Vallan (Il Manifesto, 14 marzo 2008)

Deve qualcosa a Friedkin (almeno al Friedkin de Il braccio violento della legge) James Gray, newyorkese anacronistico, amato da Chabrol e amante di melodrammi nero pece, che apre il suo terzo film, I padroni della notte, con un omaggio al grande fotografo della Magnum Leonard Freed (mancato l'anno scorso) e una selezione di scatti da uno dei suoi libri più belli, Police Work (1980). Quelle di Freed e di Gray sono le immagini di un dipartimento di polizia etnico e blue collar, un corpo sconquassato, in una città ingovernabile in piena recessione economica (ha un cameo nel film anche il sindaco della New York di quegli anni, Ed Koch, che interpreta se stesso), un mondo esclusivamente (e ottusamente) maschile, governato dalle leggi della famiglia (che sia quella di sangue, delle divise blu o della mafia russa) in cui ci si muove a bordo di macchine scassate e la giustizia ha un sapore biblico ma si improvvisa un po' così come viene.


Con una premessa da tragedia greca, Robert Duvall, capo della polizia, ha un figlio che gli lavora al fianco (Mark Walhberg) e uno che sta dall'altra parte (Joaquim Phoenix come Walhberg alla sua seconda collaborazione con il regista), gravitando (insieme alla fidanzata Eva Mendes) nei giri criminali importanti dall'ex Unione sovietica (in versione più casereccia di quelli raccontati da Cronenberg, ma altrettanto violenta). I padroni della notte è un'immersione totale nei luoghi della città, una New York anti-cartolina (Brighton Beach, Washington Heights, il lungomare fatiscente di Coney Island, l'antro cavernoso di Webster Hall...). I suo rituali etnici in via di estinzione, sradicati dalla gentrificazione del tessuto metropolitano. I personaggi che si materializzano dal buio e dalla pioggia per poi venirne reinghiottiti. Bellissima la scena dell'inseguimento in macchina. Barocco, eccessivo come un iperbolico melodramma criminale giapponese il finale tra le canne. Gray manca di ironia, di distanza (e quindi si espone facilmente alle critiche di chi patisce il machismo retrofascista dei suoi personaggi, i loro valori preistorici). In realtà, l'essere un occhio così «fuori moda» dà al suo cinema una ricchezza preziosa.

martedì 24 novembre 2009

INSIDE DEEP THROAT_Inside Gola Profonda




















di Roberto Silvestri (Il Manifesto, 27 maggio 2005)

Trent'anni anni fa, improvvisamente tutti, tranne gli embrioni che sono caos di cellule, andarono a vedere Deep Throat (Gola profonda). Oggi un documentario gli rende il giusto omaggio, e la Mikado diffonde. È Inside Deep Throat, di Randy Barbato e Fenton Bailey, già a Sundance e Berlinale, che penetra i motivi segreti di un trionfo inaspettato (24 mila dollari di budget e 300 milioni di incassi) e racconta perché Gola profonda, blue movie di Gérard Damiano, star Linda Lovelace ('72), ha cambiato stile, senso e sesso dirigente del porno tradizionale. Certo, è vero che il film, e tutto l'«hard», è a gestione criminale. Ma, come scrisse la New York Review of Books, e spiega Camille Paglia nel doc, da quel momento «la pornografia divenne il più grande avvenimento artistico del decennio». Nel doc i preliminari sono i materiali di repertori e le interviste, l'acme orgasmico le dichiarazioni di Gérald Damiano e Harry Reems (la star, oggi mormone praticante, ma sempre spiritoso ammiratore del film). Intanto Gola profonda è tornato nelle sale Usa, nonostante il fluxus teocratico inquinante e, come allora, farà fare a tutti gli spettatori (si spera anche italiani) il giro della morte dell'immaginario. Scopriremo meglio cosa avesse di speciale rispetto ai due super porno, The Devil in Miss Jones, di Damiano (tra i 12 maggiori incassi del `73) e Behind the green door dei Mitchell Brothers ('72). E perché fu l'equivalente hard di un softcore di Russ Meyer. La trovata non fu un seno esplosivo, ma un clitoride in gola. Che rendeva acrobatica, quasi soffocante, anche se tecnicamente obbligatoria per la protagonista, la ricerca orale dell'orgasmo. Una bizzarria ginecologica che richiese virtuosismi interpretativi tecnicamente arditi. Li racconta Chuck Traynor (ex manager di Linda e poi marito della porno star Marilyn Chambers) nel libro di Jouffa e Crowley L'age d'or du film erotique et pornographique. Si trattava di rilassare un muscolo della gola che istintivamente si contrae davanti a oggetti estranei. Un'anomalia perversa da Cronenberg, e grondante ancor più senso dell'umorismo «controculturale» (anche se per ottenerlo furono impiegati metodi da Abu Ghraib). Però permise duplici, liberatorie soddisfazioni. Sia per la fantasia sessuale centrale del maschio, la fellatio, vissuta a quei tempi come un grande, ma disintegrabile tabù e dunque anche da sbeffeggiare e delocalizzare come sintesi di antiche gerarchie di potere sessuale. E, per l'«altra metà del cielo», Gola profonda svolse la funzione pedagogica, pop e femminista, di identificare e mettere in risalto quella zona erogena del corpo, oggetto trascurato del maschio distratto... Per questa sua bipartizan funzione divenne il più famoso hard del mondo e fece avanzare, in tutti i sensi, il «comune senso del pudore». Il suo titolo entrò nella Storia (fu la geniale talpa che distrusse Nixon nel caso Watergate), una t-shirt dell'epoca, molto venduta tra i reduci maschilisti, affermava: «Ho soffocato Linda Lovelace»; Leslie Nielsen, in Pallottola spuntata 2 ne agogna la scena madre: l'orgasmo multiplo in montaggio alternato a base di partenze di missili Apollo, fuochi d'artificio e campane. Ovvero le sensazioni e emozioni mancanti, che avevano portato una frustrata Linda Lovelace, su consiglio dell'amica Jenny, dal dottor Young, il sessuologo «reichiano» che le avrebbe salvato la vita. Il segreto del successo Gola profonda lo deve certamente all'originale regista, il parrucchiere di origine italiana (pseudonimo «Jerry Gerald») cui fu lasciata rara libertà d'azione. E che metteva l'occhio dappertutto (c'è perfino un carrello), tagliava e rimontava accoppiamenti e blow jobs (o french blow) integrali, senza preoccuparsi del culto dell'erezione, della sacra «continuity» degli atti, ossessione dall'85 in poi dei noiosi «gonzo movies» e «wall to wall» su cui ironizza l'ultimo Tsai Ming Liang. E così seppe creare, in 7 giorni di riprese a Miami, attraverso una sfrontata regia da b-movie, musica trascinante e spiritosa e un rosario di battute «camp», l'atmosfera buffa e giusta per portare chiunque nelle sale a luci rosse. Linda, poi militante femminista anche d'altro tipo, lo giudicò l'antidoto alla tv che «scodellava al pubblico teenager milioni di assassinii e montagne di odio assicurato, in prima serata, ma neanche una bella nottata d'amore integrale».

domenica 22 novembre 2009

NEMICO PUBBLICO di Michael Mann













Dillinger, il kolossal della Depressione di Giulia D'Agnolo Vallan (Il Manifesto, 13 novembre 2009)

«Mi chiamo John Dillinger. Rapino banche». Evocando il leggendario «Mi chiamo John Ford. Faccio western», nel suo gigantesco, notturno e irrequieto nuovo kolossal, Michael Mann ci racconta un John Dillinger di poche parole, un killer spietato e malinconico, con l'occhio freddo di un serpente, avvolto di una calma piatta, minacciosa e con l'eleganza naturale di Johnny Depp. Un uomo che non teme nulla e nessuno, sorride pensando al mito di se stesso e perde la testa per una meticcia francese di nome Billie Frechette (Marion Cotillard). Il pericolo numero uno di Michael Mann ha poco a che vedere con la furia folle, quasi gioiosa, del Dillinger (Warren Oats) di John Milius. Nella sua monumentalità e nella grandiosità di un magnifico balletto a base di uomini in doppio petto e raffiche infuocate di proiettili Nemico pubblico risulta un film paradossalmente intimista.

Lavorando come ormai dai tempi di Collateral con un'orchestra di telecamere digitali sulla materia stessa delle tenebre e su quella che sembra ormai una sua sfida personale all'occhio del pubblico, Mann fa sempre più pensare a un espressionista astratto - il suo è un cinema di tratti, è un'esplorazione progressiva dell'inafferrabilità di se stesso. Così come è sceneggiato dallo stesso Mann, insieme a Ronan Bennett e Ann Biderman (da un libro di Bryan Burrogh), Nemico pubblico è materiale perfetto per questa ricerca.

Con poche ma bellissime inquadrature - il cielo immenso del Midwest che si staglia sopra un penitenziario all'inizio del film, o (fordianamente) dietro ai panni stesi di una casa povera, in cima a una collina, una donna che chiede ai banditi di portarla con sé... - Michael Mann traccia gli States della Depressione, quelli da cui è nato il grande cinema gangster hollywoodiano, insieme a rapinatori/leggende folk come Bonnie e Clyde, Dillinger, Baby Face Nelson, Pretty Boy Floyd, i Barker, e insieme al Federal Bureau of Investigation di Edgar Hoover, creato anche per eliminare quei criminali così pericolosamente vicini all'allure di eroi popolari. Sempre attento al dettaglio storico, nel suo film Mann tratteggia attraverso la parabola di Dillinger, e il progressivo interventismo della polizia federale, la fine dell'era (romantica) del gangster solitario e la crescita del crimine organizzato - alla fine anche la mafia volta le spalle al libero battitore Dillinger. In questo senso, per quanto sontuoso, Nemico pubblico ha in sé una traccia di elegia/energia proletaria. E fa non pochi riferimenti al western.

Fedele alle cronache del tempo, che gli permettono inoltre di riprendere la struttura del duetto/duello che aveva caratterizzato il rapporto tra poliziotto (Al Pacino) e criminale (Robert De Niro) in Heat, il regista di Miami Vice individua nell'agente federale Melvin Purvis (un impassibile Christian Bale eredita il ruolo che nel film di Milius fu di Ben Johnson) la nemesi del suo bandito. Giù a Washington, Edgar Hoover (Billy Crudup) è un politicante assetato di fama e di potere che usa l'Fbi per promuovere se stesso.

Più di tutto, lavorando sull'idea della caccia all'uomo e sulla struttura delle fuga, Nemico pubblico è uno studio sul movimento: rapine che durano meno di due minuti, frenetiche corse in macchina nel buio, convulsamente striato dalla luce arancione delle raffiche di mitragliatrice. La fine della storia di Dillinger si sa, fu ucciso da Purvis e dai suoi in un agguato, all'uscita di un cinema dove proiettavano Manhattan Melodrama, un gangster movie atipico, diretto da W.S Van Dyke su due amici d'infanzia, William Powell e Clark Gable, che finiscono da due parti opposte della legge. È nel buio di quella sala che si consuma la scena più bella del film, nei campi e controcampi tra il primo piano di Dillinger e, sullo schermo, quelli di Gable e Myrna Loy. In quella poche inquadrature c'è tutto il potere straordinario del cinema.

giovedì 12 novembre 2009

UN'ALTRA GIOVINEZZA di Francis Ford Coppola (2007)




















Il sogno d'una rosa di Alessandro Cappabianca (Filmcritica, n. 579, novembre 2007)

Nel film di Coppola del 1986, Peggy Sue tornava indietro nel tempo, in seguito a uno svenimento durante una festa, ringiovanendo, mi pare, di venticinque anni. Più o meno di quanto ringiovanisce il settantenne rumeno, Dominic Matei, studioso di linguistica, colpito (nella Bucarest del 1938) da un fulmine che avrebbe dovuto incenerirlo, del quale invece assorbe miracolosamente la spaventosa energia: per cui non solo torna un quarantenne di bell’aspetto (e molte donne si interessano di nuovo a lui), ma acquista un tale potenziamento anche delle sue capacità psichiche da essere capace di assimilare il contenuto d’un libro solo prendendolo in mano e di imparare alla perfezione il cinese e altre lingue più antiche e oscure (tipo sanscrito) in brevissimo tempo.


Si può dire che diventa un Superuomo? É quanto pensano i nazisti, che nel frattempo hanno invaso la Romania, e intendono rapire Dominic per compiere esperimenti (più o meno diabolici) su di lui.

Per noi, un Superuomo non lo è di sicuro, per quanto sia in grado, con la sola forza della volontà, di rivolgere la canna d’una pistola contro chi gliela punta addosso. Qualcosa di angoscioso, il ricordo d’un trauma non sanato (l’abbandono, tanti anni prima, da parte di Laura, suo unico grande amore), continua a tormentarlo, fin dal sogno inquietante (se sogno è) d’inizio film (sui titoli di testa), dove vediamo scorrere e incastrarsi gli ingranaggi meccanici, mille volte ingranditi, d’un orologio che è l’orologio del tempo e del rimpianto, vecchio dono di Laura in pegno di fedeltà eterna, le cui lancette, però, scorrono ormai rapidamente e inesorabilmente in senso antiorario.

Coppola pone dunque subito il film nel segno del tempo rovesciato, i cui paradossi ci stupiscono, ma la cui rappresentazione può aver luogo solo attraverso la messinscena d’uno spazio rovesciato. Voglio dire: Un’altra giovinezza non è, non può e non vuole essere, un film palindromo, come era p.e. Le couple di R. Ruiz (1980), anch’esso, guarda caso, dedicato alle vicissitudini d’una coppia di amanti - film in grado di cambiare senso a seconda che venga proiettato “normalmente” o “alla rovescia” (ma si pone subito il problema, allora, di quale sia da considerare la proiezione “normale”). In Un’altra giovinezza, peraltro, ci ricordano Ruiz certe inquadrature della bocca di Dominic, dalla quale cadono i vecchi denti per far posto ai nuovi, appena spuntati, in una sequenza che, tra l’altro, sembra mettere tra parentesi la vecchia idea freudiana dell’ossessione di perdere i denti come angoscia di castrazione.

Tuttavia, la diegesi del film di Coppola non può che procedere in avanti – il tempo non è proiettabile al contrario, se non mentalmente, o col ritorno inopinato di certi personaggi (prima di tutto Laura, reincarnata in Veronica). La metempsicosi, al limite, resta un espediente, in base alle suggestioni del romanzo d’uno storico delle religioni come Mircea Elide (ma qui si può forse reperire qualche lontana eco della Doppia vita di Veronica di Kieslowski). L’avvicinamento al proto-linguaggio, al momento originario del logos, alla prima dominazione delle cose, alla più antica espressione verbale strutturata, in fondo rimane il sogno non realizzato di Dominic, malgrado alcuni brevi frammenti pronunciati da Veronica durante uno di quegli stati di “estasi mistica” che lentamente l’uccidono, cui Dominic decide di porre termine, abbandonandola, poiché l’ama, per salvarle la vita (così come Laura, per amore, aveva abbandonato lui).

E’ lo spazio rovesciato allora, o meglio, il rapporto rovesciato tra macchina da presa e spazio, a rappresentare il rovesciamento del tempo, spesso attraverso un’operazione letterale, esplicita, di inquadrature riprese a macchina non solo obliqua, ma completamente rovesciata. Operazione esplicita, sì, ma i cui esiti risultano tutt’altro che risaputi: non è solo che il basso diventi l’alto, e viceversa – sono sconvolti i nostri stessi codici di riconoscimento, si confondono le coordinate, si perdono i riferimenti.

Sta qui, a mio parere, lo spessore filosofico del film di Coppola, nella perdita dell’automaticità della percezione, dei suoi stessi a-priori (e di conseguenza dell’andar-da-sé del soggetto), non nei filosofemi da orientalistica in pillole.

Dolore, perdita, rimpianto, memoria. Vecchi album di fotografie che dovrebbero confermare/ricordare il passato, e inopinatamente, invece, non fanno che smentirlo. Ambiguità di Mnemosyne. Tempi incrociati. Parallele che si incontrano. Ripetizioni e differenze. Sogno della farfalla. Sogno della rosa, il centro del cui bocciolo somiglia a un occhio scolpito nella roccia.

Film come sogno, infine. Prima di addormentarsi (o riaddormentarsi?) sulla neve, stavolta davvero per sempre, di nuovo a Bucarest (ma l’aveva poi mai davvero lasciata?), Dominic ha reicontrato i suoi vecchi amici, i colleghi del liceo, che festeggiano il suo ritorno (ritorno?). Li incontra o li sogna? Forse anche loro sono morti, come i vecchi scrittori colleghi del protagonista di Dias da campo di Ruiz, seduti ai tavoli di un bar di Santiago, invece che, come accade qui, a quelli oscuri e un poco malinconici, ma ugualmente incantati, d’un Caffè mitteleuropeo.

lunedì 9 novembre 2009

giovedì 5 novembre 2009

OUT OF TIME_Blur

Il video è realizzato da John Hardwick con immagini tratte da un reportage della BBC che documenta la vita su una portaerei Usa nel Golfo.



Where's the love song?
To set us free
Too many people down
Everything turning the wrong way around
And I don't know what love will be
But if we start dreaming now
Lord knows we'll never leave the clouds

And you've been so busy lately
that you haven't found the time
To open up your mind
And watch the world spinning gently out of time

Feel the sunshine on your face
It's in a computer now
Gone to the future, way out in space

And you've been so busy lately
that you haven't found the time
To open up your mind
And watch the world spinning gently out of time

And you've been so busy lately
that you haven't found the time
To open up your mind
And watch the world spinning gently out of time

Tell me I'm not dreaming but are we out of time?
(We're) out of time

Out of time

martedì 3 novembre 2009

PARNASSUS - L'UOMO CHE VOLEVA INGANNARE IL DIAVOLO di Terry Gilliam



Heath Hedger, l'ultima magia del Dr. Parnassus di Mariuccia Ciotta (Il Manifesto,  23 ottobre 2009)

Terry Gilliam, il regista nato a Minneapolis nel 1940, ma sulfureo suddito di sua maestà britannica, ha fatto esplodere Cannes 2009 di fuochi d'artificio visivi, un carosello delle meraviglie, il luccichio della magia coniugato agli stracci dei vagabondi, quelli di Fisher King saliti sul carrozzone di Pinocchio e diretto verso un immenso Luna Park.

Siamo sul set di Méliès, tra sbuffi di fumo, piume, maschere, nani e ballerine... A bordo del teatro ambulante del Dr. Parnassus (sublime Christopher Plummer) che battè al gioco il diavolo, Mister Nick (Tom Waits) e vinse l'immortalità, ma poi, incontrato l'amore, avendo l'età di mille anni, preferì la giovinezza e in cambio promise al demonio sua figlia Valentina (Lily Cole), faccia candida a cuore, allo scoccar dei 16 anni.

Lo scricchiolante vagone mobile nasconde un passaggio segreto, uno specchio fatato che dà su un mondo immaginario, fantasmagorico, lisergico e pericoloso come la «fabbrica di cioccolata di Willie Wonka» e la sua Las Vegas paranoica, abitato da illustrazioni vive dell'Ottocento, scarpe gigantesche, prati infiniti, un fiume, e ogni tipo di leccornie. Un mondo «ai confini della realtà» che fa da contrappunto alla periferia londinese, miserabile accozzaglia di senzatetto, di giacigli e mendicanti, un panorama dickensiano che solo un sipario di velluto rosso divide dall'al di là. Mister Nick reclama la sua giovane preda e tormenta il Dottor Parnassus, pentito, deciso a battere al gioco il suo «diavolo custode» e mette in atto sortilegi spettacolari, un «paese dei balocchi» color pastello da illusionista pazzo, un paradiso per ogni gusto, il regno del mago di Oz con le sue creature cangianti. Ma l'inferno è vicino e canta la sua canzone lugubre.

Lo specchio magico sarà violato dalla realtà extra-schermica, da un'ombra fuori quadro che dà i brividi, il fantasma di Heath Ledger, il giovane attore consacrato dall'Oscar postumo per The Dark Knight. La sua morte a metà lavorazione ha fatto del suo personaggio un essere cangiante che prende i connotati di Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell. Una metamorfosi più violenta di ogni travestimento.

Apparizione funebre, Ledger entra in scena impiccato sotto un ponte di Londra («ho pensato a Roberto Calvi», il presidente del Banco Ambrosiano appeso a una corda sotto il ponte dei Frati Neri, ha detto Gilliam) ma il cinema lo resuscita, anzi lo fa vivere in eterno come recita Johnny Depp in un bellissimo monologo sui veri immortali, i divi, che «non saranno mai né poveri né malati né vecchi, ma per sempre giovani e belli».

La favola del regista dei Monty Python gioca sul doppio, il bene e il male complici, la città moderna con le vetrine alla moda e il pozzo profondo dell'immaginazione, al di là del sipario tutto è possibile, dietro la maschera non c'è mai la fine, la storia continua «contro la narrazione piena di menzogne della realtà», ed è la forza vitale dell'impossibile che fa girare il mondo.

lunedì 2 novembre 2009

CENTRAL PARK di Frederick Wiseman (1989)



VEDERE E GUARDARE di Marina Delvecchio (Filmcritica, n. 590, dic. 2008)


Ciò che differenzia il documentario dalla finzione non è una questione di natura, bensì di forma, cioè “immagine” come separazione e manifestazione (Eizenstejn) e come “formazione della mente per sintesi di dettagli parziali privi di senso comune, che lo acquistano nel momento in cui vengono collegati in una struttura interiore”.
È per questo che il documentario è stato definito un “cinema di chiarificazione”, un avvenire, cioè, della finzione, che la rinnova senza sosta fuori dagli obblighi di una sceneggiatura già scritta. Il reale, infatti, non è un’evidenza che si dà semplicemente davanti alla macchina da presa ma è legato al modo in cui viene percepito, colto, da chi guarda ed inseparabile dalla mediazione attraverso la quale lo si coglie. Non basta collocare la cinepresa di fronte ad un evento. Vedere in sé non è una prova né un’esperienza – come dice la protagonista di Hiroshima mon amour: “Tu n’a rien vu”.
Il film, allora, passa innanzitutto attraverso l’impegno fisico del suo autore che restituisce un’esperienza singolare del mondo. È per questo che il documentarista percorre il mondo per sentire il polso del pianeta, alla ricerca innanzitutto di un rapporto con esso. Gli assi di questo spostamento danno forma al film e lo ridefiniscono non tanto come coscienza percettiva, quanto come esperienza poetica aperta ai mutamenti, presa di coscienza dei molteplici livelli di realtà del mondo. Filmare diventa un gesto politico, legato ad un’inquietudine, che si propone di mettere in discussione le evidenze e decostruire il posto di ciascuno nel mondo attraverso un’esplorazione dei suoi aspetti più impensati. È proprio questo che caratterizza il cinema di Frederick Wiseman: un’immagine la cui forma restituisca un rapporto col mondo e che ne esplori senza ipocrisie le contraddizioni.
Da Titcut Follies (1967) a State Legislature (2007), Wiseman non si concede che uno o due giorni di ricerche laddove altri si fermano mesi, anche anni. Gira dalle quattro alle dodici settimane: mentre lui registra il suono, un operatore riprende le immagini. Non segue la storia di un solo personaggio, ma piuttosto le istituzioni e come in esse si riproducano i ruoli sociali, eppure la sua macchina da presa è reattiva ad ogni tremore, pronta a cogliere con lo zoom il più piccolo gesto facendo attenzione, come Joaquin Jordà, innanzitutto alle persone.
Filmare, infatti, richiede tempo. Come Depardon o Philibert, Wiseman vive al ritmo di ciò che riprende, si colloca all’altezza di chi osserva, per cogliere i fili invisibili che collegano fra loro gli individui. Il cinema diretto è questa compresenza del cineasta e di ciò che filma: come nel caso di Jean Rouch, partecipe della realtà fino ad appartenere all’evento stesso, ad essere parte del rito che si è proposto di filmare. Tuttavia ciò che ne risulta non è una semplice fusione, bensì la tensione del presente colto nel suo emergere. Il reale non è più una scena che si svolge di fronte allo spettatore, perché la macchina da presa si trova ora al centro dell’avvenimento. Filmare senza sceneggiatura obbliga a definire il proprio modo di agire e ad essere aperti al miracolo dell’imprevisto, alla “grazia” che rende visibile l’invisibile. È l’avventura delle riprese, sciolte dall’obbligo della sceneggiatura, che restituisce al documentario linfa vitale. Filmare, dunque, vuol dire soprattutto intessere una relazione, essere attento alla particolarità del momento. La macchina da presa diventa un mezzo di confronto e strumento attraverso il quale avviene un incontro, emerge la parola degli esseri umani strappati alle masse grigie e restituiti all’individualità dei loro desideri nascosti.
Il cinema di Frederick Wiseman è il campo di esercizio di questa inquietudine in movimento: non parla dall’alto ma a filo dell’inquadratura, non fa sfoggio di sapere più di quello che mostra passo passo, immerso nel tempo, filmando l’istante nel suo fremito. Il suo punto di vista non è mai anteriore ai fatti, ma emerge piuttosto al montaggio, momento in cui ricostruisce non tanto una narrazione, quanto quei collegamenti e quella “finzione” all’interno delle immagini documentarie. Non interviene né commenta mai, chiede solo il permesso di filmare: tutto quello che avviene nei suoi film è reale, non è mai stato provocato, neanche un po’, eppure i suoi protagonisti sembrano usciti da una pièce di Samuel Beckett.
L’assenza di un commento in voce off lo obbliga ancor più ad essere presente alle persone che filma, sensibile alla loro presenza. Ecco allora che l’esercizio cinematografico diventa sempre più un fatto fisico e il solo linguaggio che conta è quello del corpo: l’altro “non è più dietro un vetro ma nello stesso spazio e tempo” del regista, attento alla particolarità del momento e alla sua “frattura” (Bazin). Se si distinguono guardare e vedere come due modi di rapportarsi a ciò che si filma, il primo “senza finalità pratiche e scopritore di aspetti inconsueti”, mentre il secondo teso invece “a una definizione dell’oggetto, a una sua collocazione dentro gli stereotipi della conoscenza, dell’utilità” (Bernardi), è senz’altro al primo modo che si riferisce il cinema di Wiseman.
Se l’informazione è ridotta a pura registrazione, ad enunciati che elidono i raccordi tra i fatti, compito del documentarista è proprio quello di interpretare, per usare una distinzione cara a Jordà, di creare una rappresentazione unendo tra loro i piani: capire da dove vengono i fatti e cosa mettono in moto, senza però accompagnarli con un commento incombente, recuperare le connessioni e le assenze che ci appartengono e ci animano come esseri umani.