lunedì 2 novembre 2009

CENTRAL PARK di Frederick Wiseman (1989)



VEDERE E GUARDARE di Marina Delvecchio (Filmcritica, n. 590, dic. 2008)


Ciò che differenzia il documentario dalla finzione non è una questione di natura, bensì di forma, cioè “immagine” come separazione e manifestazione (Eizenstejn) e come “formazione della mente per sintesi di dettagli parziali privi di senso comune, che lo acquistano nel momento in cui vengono collegati in una struttura interiore”.
È per questo che il documentario è stato definito un “cinema di chiarificazione”, un avvenire, cioè, della finzione, che la rinnova senza sosta fuori dagli obblighi di una sceneggiatura già scritta. Il reale, infatti, non è un’evidenza che si dà semplicemente davanti alla macchina da presa ma è legato al modo in cui viene percepito, colto, da chi guarda ed inseparabile dalla mediazione attraverso la quale lo si coglie. Non basta collocare la cinepresa di fronte ad un evento. Vedere in sé non è una prova né un’esperienza – come dice la protagonista di Hiroshima mon amour: “Tu n’a rien vu”.
Il film, allora, passa innanzitutto attraverso l’impegno fisico del suo autore che restituisce un’esperienza singolare del mondo. È per questo che il documentarista percorre il mondo per sentire il polso del pianeta, alla ricerca innanzitutto di un rapporto con esso. Gli assi di questo spostamento danno forma al film e lo ridefiniscono non tanto come coscienza percettiva, quanto come esperienza poetica aperta ai mutamenti, presa di coscienza dei molteplici livelli di realtà del mondo. Filmare diventa un gesto politico, legato ad un’inquietudine, che si propone di mettere in discussione le evidenze e decostruire il posto di ciascuno nel mondo attraverso un’esplorazione dei suoi aspetti più impensati. È proprio questo che caratterizza il cinema di Frederick Wiseman: un’immagine la cui forma restituisca un rapporto col mondo e che ne esplori senza ipocrisie le contraddizioni.
Da Titcut Follies (1967) a State Legislature (2007), Wiseman non si concede che uno o due giorni di ricerche laddove altri si fermano mesi, anche anni. Gira dalle quattro alle dodici settimane: mentre lui registra il suono, un operatore riprende le immagini. Non segue la storia di un solo personaggio, ma piuttosto le istituzioni e come in esse si riproducano i ruoli sociali, eppure la sua macchina da presa è reattiva ad ogni tremore, pronta a cogliere con lo zoom il più piccolo gesto facendo attenzione, come Joaquin Jordà, innanzitutto alle persone.
Filmare, infatti, richiede tempo. Come Depardon o Philibert, Wiseman vive al ritmo di ciò che riprende, si colloca all’altezza di chi osserva, per cogliere i fili invisibili che collegano fra loro gli individui. Il cinema diretto è questa compresenza del cineasta e di ciò che filma: come nel caso di Jean Rouch, partecipe della realtà fino ad appartenere all’evento stesso, ad essere parte del rito che si è proposto di filmare. Tuttavia ciò che ne risulta non è una semplice fusione, bensì la tensione del presente colto nel suo emergere. Il reale non è più una scena che si svolge di fronte allo spettatore, perché la macchina da presa si trova ora al centro dell’avvenimento. Filmare senza sceneggiatura obbliga a definire il proprio modo di agire e ad essere aperti al miracolo dell’imprevisto, alla “grazia” che rende visibile l’invisibile. È l’avventura delle riprese, sciolte dall’obbligo della sceneggiatura, che restituisce al documentario linfa vitale. Filmare, dunque, vuol dire soprattutto intessere una relazione, essere attento alla particolarità del momento. La macchina da presa diventa un mezzo di confronto e strumento attraverso il quale avviene un incontro, emerge la parola degli esseri umani strappati alle masse grigie e restituiti all’individualità dei loro desideri nascosti.
Il cinema di Frederick Wiseman è il campo di esercizio di questa inquietudine in movimento: non parla dall’alto ma a filo dell’inquadratura, non fa sfoggio di sapere più di quello che mostra passo passo, immerso nel tempo, filmando l’istante nel suo fremito. Il suo punto di vista non è mai anteriore ai fatti, ma emerge piuttosto al montaggio, momento in cui ricostruisce non tanto una narrazione, quanto quei collegamenti e quella “finzione” all’interno delle immagini documentarie. Non interviene né commenta mai, chiede solo il permesso di filmare: tutto quello che avviene nei suoi film è reale, non è mai stato provocato, neanche un po’, eppure i suoi protagonisti sembrano usciti da una pièce di Samuel Beckett.
L’assenza di un commento in voce off lo obbliga ancor più ad essere presente alle persone che filma, sensibile alla loro presenza. Ecco allora che l’esercizio cinematografico diventa sempre più un fatto fisico e il solo linguaggio che conta è quello del corpo: l’altro “non è più dietro un vetro ma nello stesso spazio e tempo” del regista, attento alla particolarità del momento e alla sua “frattura” (Bazin). Se si distinguono guardare e vedere come due modi di rapportarsi a ciò che si filma, il primo “senza finalità pratiche e scopritore di aspetti inconsueti”, mentre il secondo teso invece “a una definizione dell’oggetto, a una sua collocazione dentro gli stereotipi della conoscenza, dell’utilità” (Bernardi), è senz’altro al primo modo che si riferisce il cinema di Wiseman.
Se l’informazione è ridotta a pura registrazione, ad enunciati che elidono i raccordi tra i fatti, compito del documentarista è proprio quello di interpretare, per usare una distinzione cara a Jordà, di creare una rappresentazione unendo tra loro i piani: capire da dove vengono i fatti e cosa mettono in moto, senza però accompagnarli con un commento incombente, recuperare le connessioni e le assenze che ci appartengono e ci animano come esseri umani.

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