giovedì 26 novembre 2009

I PADRONI DELLA NOTTE di James Gray














NEW YORK, UNA CITTA' NERO PECE di Giulia D'Agnolo Vallan (Il Manifesto, 14 marzo 2008)

Deve qualcosa a Friedkin (almeno al Friedkin de Il braccio violento della legge) James Gray, newyorkese anacronistico, amato da Chabrol e amante di melodrammi nero pece, che apre il suo terzo film, I padroni della notte, con un omaggio al grande fotografo della Magnum Leonard Freed (mancato l'anno scorso) e una selezione di scatti da uno dei suoi libri più belli, Police Work (1980). Quelle di Freed e di Gray sono le immagini di un dipartimento di polizia etnico e blue collar, un corpo sconquassato, in una città ingovernabile in piena recessione economica (ha un cameo nel film anche il sindaco della New York di quegli anni, Ed Koch, che interpreta se stesso), un mondo esclusivamente (e ottusamente) maschile, governato dalle leggi della famiglia (che sia quella di sangue, delle divise blu o della mafia russa) in cui ci si muove a bordo di macchine scassate e la giustizia ha un sapore biblico ma si improvvisa un po' così come viene.


Con una premessa da tragedia greca, Robert Duvall, capo della polizia, ha un figlio che gli lavora al fianco (Mark Walhberg) e uno che sta dall'altra parte (Joaquim Phoenix come Walhberg alla sua seconda collaborazione con il regista), gravitando (insieme alla fidanzata Eva Mendes) nei giri criminali importanti dall'ex Unione sovietica (in versione più casereccia di quelli raccontati da Cronenberg, ma altrettanto violenta). I padroni della notte è un'immersione totale nei luoghi della città, una New York anti-cartolina (Brighton Beach, Washington Heights, il lungomare fatiscente di Coney Island, l'antro cavernoso di Webster Hall...). I suo rituali etnici in via di estinzione, sradicati dalla gentrificazione del tessuto metropolitano. I personaggi che si materializzano dal buio e dalla pioggia per poi venirne reinghiottiti. Bellissima la scena dell'inseguimento in macchina. Barocco, eccessivo come un iperbolico melodramma criminale giapponese il finale tra le canne. Gray manca di ironia, di distanza (e quindi si espone facilmente alle critiche di chi patisce il machismo retrofascista dei suoi personaggi, i loro valori preistorici). In realtà, l'essere un occhio così «fuori moda» dà al suo cinema una ricchezza preziosa.

2 commenti:

Christian ha detto...

È il film di Gray che mi ha convinto di meno, l'ho trovato davvero ordinario soprattutto come sceneggiatura. È stato anche il primo che ho visto, e sinceramente se non ci fosse stato poi il magnifico "Two lovers" non avrei mai pensato di recuperare le sue opere precedenti.

Francesco Dongiovanni ha detto...

anch'io penso che Two Lovers sia inarrivabile...ma questo film ha per me un suo valore indiscutibile...

ciao Christian,
grazie per la visita e il commento