martedì 22 dicembre 2009
TWIN PEAKS(eide)
di Paolo Pecere (tratto da Il caffè illustrato)
1. È forse una tendenza solo affettiva, legata alle circostanze del particolare ambiente in cui si vive, quella di considerare importanti dei fenomeni culturali del passato, per esempio delle opere, che si considerano d’altra parte scadenti. Si tratta di un attaccamento indiretto a esperienze tipiche di un’età e come tali irripetibili, o anche solo alla possibilità di quelle esperienze, alla loro potenzialità che magari non si è affatto dispiegata. Talvolta, forse, la simpatia amara per certe opere – canzoni, film, statuette di un folklore divenuto patacca – è legata proprio a quel rimpianto per certi versi inevitabile con cui si rievoca il mondo in cui quelle opere si sono incontrate. Come se, riafferrando i versi triviali di un ritornello o la battuta involontariamente comica di un personaggio, si potesse riscattare almeno in parte la potenzialità di quelle ore, la sua apertura indeterminata. Guardando l’opera si mira a tutt’altro, tanto che l’opera risulta al limite superflua, e come l’oggetto di un’ossessione può apparire agli occhi di un terzo privo di connessione alcuna con la passione dell’ossessionato, così si può supporre che quest’esperienza risulti ermeticamente contenuta in un ambiente generazionale, e con essa l’opera sia destinata a cadere come un frutto secco e, quale nastro ammutolito negli archivi, ritornare prossima alla polvere.
Questo pare essere il caso del telefilm Twin Peaks. Non solo, benché se ne riconosca il valore di modello per tante fiction della televisione satellitare, il fascino di quel modello risulta difficile a spiegarsi al di fuori di un gergo e di una condivisione presupposta. C’è di più: ora che ricompare nei palinsesti notturni, e le prime puntate circolano in cofanetto, ci si rende conto che quasi nessuno tra gli appassionati ricorda come – e dopo quanti episodi – andasse a finire. Resta insomma solo l’immagine monca di un inizio, i cui sviluppi si fanno sbiaditi e infine frammentari. È forse un monumento ad anni in cui le principali forme di cultura popolare – come la canzone, la soap opera, il fumetto – tendevano alla serialità, alla ripetizione entro una cornice identica, e l’interesse per la vicenda che si genera e si conclude, per lo sviluppo diacronico, restava prerogativa di esperienze per lo più scolastiche o di sforzi individuali conclusi nella sfera privata. O forse soltanto un’espressione debole dell’industria culturale, di una particolare industria dell’intrattenimento giovanile abile a giocare tra le maglie larghe di entusiasmi acritici, quasi garantiti da un supporto fisiologico; un prodotto appena animato da alcune scelte originali, ma il cui effetto era forse destinato a estinguersi di colpo come il suono di uno strumento soffiato con troppa violenza.
Tuttavia non è affatto strano, né riduttivo nel senso appena visto, che di Twin Peaks ci si ricordi come di un’entità aperta, di una qualità emotiva più che di una storia, come tale esemplare e significativa. Non solo perché, passando di mano tra diversi registi e sceneggiatori, la storia si rigenerava ininterrottamente: smagliandosi sempre di più, mettendo alla prova il concetto stesso di colpo di scena, perdendo mordente via via che tiepide se non imbarazzanti verità venivano a sostituirsi all’attesa compulsiva e indefinibile che incastrava lo spettatore tra l’uno e l’altro dei primi episodi. Il punto è che proprio quell’esordio di Lynch, come esordio, incompiuto e chiaramente inconsapevole dei propri sviluppi, portava i tratti di un fenomeno nuovo, e li portava con il marchio dell’evento originale cui seguiranno le tante copie: un’opera, certo sbiadita da un peculiare filtro ironico e da trovate che ne vanificavano la serietà, ma non ancora il mero esemplare di una serie. Così che la vicenda di Twin Peaks, piuttosto che risolversi nell’accattivante mistero di una provincia americana – non si sa in che misura immaginaria e in che misura solo americana –, ed evocare solo eventuali risonanze biografiche, si potrà considerare l’immagine di una condizione culturale. Un’immagine aperta a innumerevoli ispezioni e non ridotta alla ripetizione di se stessa e dei suoi esplicitabili espedienti, quali possono essere una formula, un format, un trucco di prestigiatore (ammesso che anche tali asciuttissimi modelli di performance non possano guadagnare sempre un respiro e uno spiraglio di creativa indeterminatezza). È insomma come il volto dimenticato che serve da modello a tanti ricordi, e viene poi magari riprodotto e ridotto innumerevoli volte in ritratti più schematici: il che distingue l’apertura essenziale di Twin Peaks dalla chiusura delle fiction successive, concluse nelle puntate dei loro cofanetti.
Ma allora, prescindendo dall’intreccio destinato a smagliarsi, come funzionava quell’esordio? Nelle prime sequenze si assisteva a una successione di pianti isterici, o sinceramente commossi, di grida e lacrime versate per la morte di una bella ragazza di cui non si sapeva nulla. Mentre i dettagli latitavano, si assisteva ancora all’incontro tra l’amica del cuore di Laura e il ragazzo segreto della stessa defunta, un motociclista slavato chiamato James. I due, smarriti e vuoti, improvvisamente si baciavano, e immediatamente nasceva un nuovo amore. In Twin Peaks, l’emozione precedeva a distanza di sicurezza la coscienza delle sue ragioni. Era un luogo sinestetico di puri affetti, mutevoli però in modo improvviso, come se, a dispetto dei risaputi e risibili complotti intorno a droga e denaro, il destino di una vicenda capricciosa e superiore governasse gli abitanti del paesino.
Tutti sembravano disorientati, a Twin Peaks, ma moltissimi parevano avere presentimenti o veri e propri poteri telepatici. Era un paese di anime sonnambule, capaci di superare agevolmente certi ostacoli del mondo fisico, ma a tutta evidenza incarnate con disagio, quasi sempre rinchiuse in abitudini minime o rapporti psicotici, al riparo da una realtà che trascendesse un’ambiente limitatissimo di cose e persone. Nascoste a se stesse. Il mistero della brava ragazza che in realtà era una pervertita, così, non era nulla di fronte al mistero di quella piccola comunità isolata, che sembrava detenere nello stesso tempo un rapporto privilegiato e visionario con l’aldilà e, quasi a esorcizzarne la vertigine, la sapienza perduta di una buona vita mondana, scandita dal lavoro, dalla messa, dalla degustazione di caffè e ciambelle al cioccolato. Se ne accorgeva subito l’agente Cooper, venuto da fuori, che sapeva interpretare l’approccio giusto a Twin Peaks, quello sensitivo: la telepatia e il sogno scandivano i veri progressi nelle sue indagini, rendendo pura pellicola accessoria tutti gli intrighi circostanti; mentre un analogo processo sensibile, la consumazione massiva di caffè e dolciumi vari, aiutava a confortare la vita razionale. L’adeguazione alle asperità del caso d’omicidio e del luogo sinistro era immediata, innaturalmente facile, priva di sforzi riflessivi e di ripensamenti drammatici: vitto e alloggio erano «appropriati». Il tutto coniugato ai buoni rapporti sociali da un sorriso automatico bonario, quasi inumano.
Uno spettatore che non avvertisse il fascino subliminale delle impressioni visive, acustiche e addirittura gustative di Twin Peaks potrebbe ritrovarsi di fronte semplicemente a una sequenza farraginosa di eventi, interpretati da personaggi piatti, epidermicamente volubili. Né si potrebbe dire, a chi giungendovi ora non riuscisse a trovarci altro, che le cose non stiano affatto così. Peraltro, Twin Peaks contiene un’esemplare, archetipica galleria di volti incapaci di espressioni autentiche: un miracolo di casting e forse di direzione, perfettamente strumentale all’assenza di veri e propri eroi nella storia. La commozione e la simpatia che si possono avvertire per i tanti personaggi non sono mai integre, prive di un particolare distacco, che l’atmosfera del film produce attraverso una formula ancora da definirsi. È questo – non il ben poco satanico diario di Laura Palmer con i suoi enigmi – il vero e proprio segreto di Twin Peaks, che vale la pena di indagare. È anche, forse, la vera attrattiva estetica dell’opera, per così dire, come suggerisce una sommaria rassegna delle caratteristiche tipiche su cui si basa la buona riuscita di una fiction. Così, per esempio, ad attrarre non era la personalità dei protagonisti, nemmeno quella mera familiarità – quasi un rispecchiamento e una solidarietà basati sulla condivisione di esperienze quotidiane e al limite mediocri – che spesso rende passabili delle fiction molto mediocri. L’agente Cooper, senza dubbio, era generoso di sentenze da ripetere, ma la sua saggezza era adatta all’ora di ricreazione e poco più («Ahhhhh. Non c’è nulla come una tazza di caffè nero per iniziare la giornata!»). La sua affabilità e la sua capacità di esorcizzare le passioni negative, poiché incomprensibili, incuriosivano. Ma tutto si risolveva in questa tenuta superficiale, mentre ripetendo le sue massime sul buon vivere ci si ritrovava a fissare una tazza di caffè lungo con quello che, al di fuori dei confini di Twin Peaks, non poteva che essere uno sguardo ebete. E Cooper, pure, con la sua mania di raccontare in un registratore portatile tutto quel che gli accade, a beneficio di una misteriosa assistente Diane, era tra le personalità più sfaccettate. Tra gli altri dominavano comportamenti automatici; viziosità e bontà intangibili come quelle di figure allegoriche – angeliche o diaboliche; passioni assolute e improvvisi scatti d’umore, se non grotteschi tic: e con l’andare avanti della storia (complice forse lo stesso, arbitrario prolungamento dell’intreccio), quando ci si rendeva conto che quelle passioni erano anche mutevoli come le inclinazioni di un filo d’erba, la diffusa, scarsa riflessività dei cittadini, che all’inizio affascinava come uno strabismo alieno, cominciava a sembrare idiozia.
Non c’era nemmeno una partecipazione immediata alle vicende commoventi o conturbanti, come si è accennato: ma la cosa non dipendeva dalla cattiva riuscita dell’opera. Infatti, a fare da pendant al tema lirico di Angelo Badalamenti, che ancora stringe il petto a chi si ritrovi colpito dalla memoria delle prima visione – miraggio di un televisorino d’altri tempi appollaiato per la prima volta su una lavatrice in cucina -, c’erano motivi e motivetti swing, talvolta apertamente comici, a sottolineare le tante scene leggere ed improbabili in cui ci si rendeva conto che il tutto non andava preso sul serio. Non il sonnambulismo kleistiano dei personaggi, già di per sé poco capaci di inquietare. Ma nemmeno le figure rituali di un lutto comunitario e di un crimine inspiegabile, nemmeno le frequenti epifanie di un trascendente tutto neon e nastri letti al contrario.
Ma nemmeno era il divertimento di una fantasia demenziale, tantomeno le risate – pallide e quasi impossibili, pur decisive a modo loro, come si vedrà– a catturare l’attenzione dello spettatore. La consapevolezza rassicurante che fosse un gioco, allora, non era che l’antidoto a un coinvolgimento più impegnativo ma meno diretto, che non riguardava le vicende in senso stretto. È possibile, certo, che tra gli appassionati vi fosse chi vedesse in Twin Peaks un’altra fiction come Dallas e Dynasty, solo più surreale. Tuttavia, l’opera stessa possedeva la potenzialità di un’attrazione più complessa, come si cercherà di mostrare.
Dalla sua iniziale distanza culturale riguardava il suo pubblico non americano, anche quello italiano, di cui si può abbozzare un’immagine non meno stereotipata e insufficiente di quelle del telefilm che lo fronteggiava: giovani cittadini di un’Italia del benessere ma priva dell’entusiasmo aurorale del boom; appassionati di musica leggera, consapevoli però del carattere già in larga misura ripetitivo della musica leggera dell’epoca, la fine degli anni ’80, privi dell’innocenza di chi aveva visto arrivare i Beatles e Jimi Hendrix come fenomeni rivoluzionari. Spesso figli di un’emigrazione interna, spaesati in città prive di memoria orale, adattivamente tolleranti di fronte alla bruttezza delle immagini pubblicitarie, pressoché privi di valori e ideali da contrapporre alla generazione dei padri e anzi alle prese con un clima di disincanto disarmante; empiricamente o almeno teoricamente consapevoli cosa siano la psicosi e l’alienazione domestiche; biologicamente inquieti. Quella distanza degli scenari provinciali e surreali di Twin Peaks, benché questi fossero per certi versi più familiari rispetto alle olimpiche dimore delle altre fiction d’importazione, forse proprio perché erano più familiari, non poteva che essere occupata dal filtro dell’ironia: così, non si potrebbe fare di Twin Peaks un serio manifesto generazionale. Intrigava senza serietà, senza pietà, pur senza confondersi senz’altro con un mero prodotto d’intrattenimento, e anzi mantenendo in retrospettiva l’apparenza di un fenomeno importante. Ma ritorniamo al punto: da dove scaturiva questa apparenza di uno spessore, non risolto nel divertimento, che ne determinava il fascino specifico? Pareva infatti raccontare altro da sé, dai propri intrighi tragicomici, e in ciò divenire appunto coinvolgente. A suo modo, in effetti, quasi a sorpresa, riusciva a superare i confini culturali, e raccontava lo spettatore e la sua esperienza, fino a evocare una peculiare e nascosta pietà: ma dello spettatore per se stesso. In ciò Twin Peaks possedeva l’indulgenza autoreferenziale di un’epica: un’epica per un popolo televisivo internazionale, rivolta a soggetti singolarmente spaesati, a sguardi abituati a sentirsi distaccati da ogni contesto non affettivo, non eroica né tradizionale − postmoderna.
2. Nei primi episodi di Twin Peaks compare spesso la televisione, e invariabilmente i personaggi stanno guardando una soap opera (fittizia) intitolata Invito all’amore. Vediamo spezzoni di scene a tinte forti, totalmente finte, il genere di sottoprodotto della TV occidentale per cui – coincidenza notevole – va pazzo proprio in questi anni il maestro di arti marziali Miyagi di Karate Kid (un saggio che ha imparato a apprezzare la trivialità delle soap). Questa attrazione-compulsione per il mondo inverosimile della fiction compare altrove nel cinema di Lynch, di cui Twin Peaks costituisce lo sfondo epico. È il motivo centrale del suo film forse più riuscito, Mulholland Drive, che proprio come Twin Peaks – vent’anni dopo – nasceva dal numero zero di una prevista serie televisiva. Dalla provincia settentrionale alla Los Angeles di Hollywood, Mulholland Drive compie il tragitto inverso di Twin Peaks: mentre Cooper veniva dalla grande città e infine si innamorava della calma tradizionale e mistica del paesino, la giovane protagonista giunge stavolta dalla provincia, spaesata e inetta, mossa dal sogno di fare l’attrice nella città universale del cinema. Mentre Cooper troverà una qualche armonia tra la percezione chiara dei propri sogni e la regola diurna del distacco garbato, del galateo e del piacere culinario, Betty dovrà soccombere alla passione primaria della gelosia e perdersi nell’apparente caos di un sogno disperato: un sogno tutto subìto. In entrambi i film, delle voci parlano nel sogno al sognatore: per Cooper la voce è inizialmente muta, mentre Laura le sussurra all’orecchio il nome del suo assassino, ma al termine del suo itinerario diviene distinta, con la sua verità in effetti banale («è stato mio padre»). Per Betty, che sogna di essere una grande attrice (cioè di fingere bene, e perciò riscuotere ammirazione), alla fine il canto stesso dell’amore si rivela drammaticamente un playback. «No hay banda», la musica è fittizia, il sogno è una spirale solipsistica, e al di fuori di esso c’è un dolore insopportabile che offusca i sensi.
Ma al di là di queste simmetrie, è evidente che – eliminando l’eccezione di un personaggio pacificato come l’agente Cooper – tanto Betty che i telespettatori di Twin Peaks sono mossi da una comune passione sognata e riguardata nello schermo televisivo: l’invito all’amore della fiction, amore non solo e niente affatto per una persona, ma, mediatamente o immediatamente, per un mondo di passioni assolute, dotate dell’asciuttezza violenta del fotoromanzo, più vivide e meno controverse di quelle dei rapporti reali. Si può dire che quel che l’agente Cooper è, un inverosimile personaggio di fiction, Betty sogna di esserlo davvero (un falso): e il richiamo nei nomi a mitici attori hollywoodiani (il bonario Gary Cooper, Bette Davis, Rita Hayworth – vera e propria identità totemica della Rita di Mulholland Drive) rimarca il fatto che ci si trova di fronte all’immagine di un sogno che un’intera civiltà cinematografica ha fatto, quello di essere come quei personaggi; e con ciò di fronte ad un errore sottile, ma inevitabile come nel meccanismo di un teatro primitivo: confondere l’attore e il personaggio fittizio, tendendo infine a identificarsi con essi. E dunque, ancora, al racconto – più o meno esplicito – del dramma che si nasconde in quello slittamento. Un dramma esemplare di tutto il meccanismo ancestrale della fiction, che il cinema di Lynch nei suoi antipodi mette in scena: dal lutto di una comunità di personaggi per una ragazza davvero comune, al sogno di una ragazza comune di aiutare l’attrice dei propri sogni a ritrovare addirittura se stessa, venendone perciò amata – e avendo ormai alienato ogni valore della propria vita reale sull’altare di questa stessa passione.
Ora, non abbiamo dubbi che gli spettatori/sognatori non ci credano davvero, in questo amore da fotoromanzo (in Twin Peaks, lo leggiamo nello sguardo ironico di Shelley, imprigionata in un rapporto violento, che spegne il video scuotendo la testa e sorridendo amara; ma lo sappiamo anche di Betty, che recitando in sogno il copione per l’audizione – che allude alla storia vera della sua passione omicida – ride della stupidità del testo). E tuttavia, così come altri protagonisti del cinema di Lynch, essi non sanno staccarsi dalla visione di un mondo di passioni ideali che li attrae, e che tanto bene rispecchia il carattere fugace e scriteriato di tante loro passioni reali (fino al punto – nel caso di Betty, ma anche nel romanzo psicotico di Nadine in Twin Peaks, che regredisce all’adolescenza e torna a scuola – da produrre la piena sostituzione paranoica delle percezioni reali con quelle fantastiche). Senza rendersi conto di star rivedendo-riducendo nella superficialità della fiction l’enigmaticità dei propri reali rapporti affettivi, nessuno di loro accenna a una presa di coscienza diretta dei propri travagli.
Ma ci si avvicina così al segreto di Twin Peaks. Credo infatti che un analogo tipo di passione, tale stavolta da coinvolgere lo spettatore reale, costituisca l’attrazione segreta di Twin Peaks. Un piacere dell’autoillusione, a sostegno di una fascinazione radicale per la dimensione emotiva del rapimento brusco e incoerente, che scoraggia ma nello stesso tempo promette sorprese e gioie improvvise, in una dimensione libera da condizionamenti culturali e sociali, finanche dalle barriere fisiche. Ma insieme – segno della presenza di uno spettatore stavolta esterno alla dimensione fittizia -, per trattenere il rischio che tutto questo si sciolga per inconsistenza tra le mani, e si riveli drammaticamente un autoinganno mascherato, viene provocata l’ironia di chi ha familiarità con i meccanismi che muovono i personaggi, li sa artefatti, e in questo trova una superiorità che lo mette a riparo dal rischio, come a distanza di sicurezza: che gli permette di simpatizzare con le performance caricaturali dei personaggi ormai macchiettistici, senza intravedervi più la filigrana dei propri desideri più infantili e puri.
lunedì 14 dicembre 2009
A CHRISTMAS CAROL di Robert Zemeckis
Il perfetto racconto di Natale di Mariuccia Ciotta (Il Manifesto, 3 dicembre 2009)
«Vorrei che qualche filosofo ben nutrito...dal sangue di ghiaccio e dal cuore di acciaio, potesse vedere Oliver Twist gettarsi su quel cibo disgustoso rifiutato dal cane». Così Charles Dickens vede la Londra di metà Ottocento, quella della rivoluzione industriale e della povertà assoluta, delle workhouse, reclusori per orfani e emarginati, fabbriche di lavoro sottopagato dove lo scrittore inglese bambino finì a lucidare scarpe, dopo che suo padre, contabile della marina, venne arrestato per debiti. È forse lì che Dickens immaginò i suoi giustizieri fantasmi che nelle notti di Natale tormentano i signori Scrooge.
Il racconto A Christmas Carol esce nel 1843, cinque anni dopo Oliver Twist, che rinasce col nome di Tim, il piccolo claudicante motore della redenzione dell'avaro Ebenezer dal «sangue di ghiaccio e dal cuore di acciaio». Ed è in questa atmosfera cupa, nella notte londinese, alla vigilia di Natale che Robert Zemeckis materializza lo spirito di Dickens nel film d'animazione che fonde letteratura, teatro, cinema, corpi reali e immaginari e fa volteggiare la macchina da presa in traiettorie impossibili. Lo sguardo circolare avvolge la scena, non più campi contro-campi ma un'immersione totale che il 3D amplifica. Spazio e tempo si riallineano secondo un'altra realtà, e il passare dei fotogrammi non è più la vita in dissoluzione permanente, il cinema come «morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo», ma un al di là assoluto e abitabile, uno stato di eclisse e di coscienza. È il cinema mentale di Eisenstein, che non caso esplorava la metamorfosi disneyana, ne studiava gli effetti e la percezione, i mondi creati a partire dal «vero». Disney applicava la tecnica del rotoscope per ricalcare i movimenti dei suoi personaggi di carta, e Zemeckis ne utilizza una versione aggiornata nel suo A Christmas Carol, la motion capture, un sistema che permette di acquisire la voce e i gesti degli attori attraverso l'applicazione di mille sensori sui corpi e sui volti. Le sembianze mutano, ma l'espressione e la carica emotiva dei protagonisti restano, così Jim Carrey può interpretare non solo Scrooge vecchio, ragazzo e bambino, ma anche i tre spiriti del Natale, passato, presente e futuro. La stessa cosa vale per Gary Oldman nella parte del socio defunto Jacob Marley e dell'angariato contabile Cratchit, e per Bob Hoskins, Robin Wright Penn, tutti, tranne Colin Firth, moltiplicati per due, tre, quattro personaggi di ogni età (purtroppo li sentiremo doppiati nella versione italiana). A questo attore/ibrido, un po' sintetico un po' di carne e ossa, è restituita l'integrità della recitazione, infatti le riprese avvengono senza soluzione di continuità, come su un palcoscenico, e captano ogni gesto e movimento. Poi il computer farà il resto. Una «macchina del tempo», Robert Zemeckis immagina così il testo di Dickens, secondo la sua vocazione al viaggio spazio-temporale (Back to the Future) e inizia la sua avventura nello studio freddo e buio di Ebenezer Scrooge, che per amore ha l'oro, odia il Natale, nega l'elemosina, tiranneggia il suo dipendente, rifiuta l'invito al cenone della vigilia dell'esuberante nipote e se ne torna a casa curvo e cupo sotto i fiocchi di neve. La città proietta ombre inquietanti, il batacchio del portone si anima e brilla nel ghigno del socio morto, il primo a fargli visita, fantasma luminescente e incatenato che gli annuncia le terribili apparizioni. Scenografia e testo, fedelissimi all'originale, dichiarano l'interesse del regista alla storia, che le mette a servizio la tecnica, già sperimentata in Beowulf e in The Polar Express.
Canto di Natale (bellissime le musiche di Alan Silvestri) sprigiona dalle pagine del capolavoro disckensiano la sua carica di orrore e meraviglia, un film spaventoso nell'attesa dei revenant che appaiono testimoni della disumanità dell'uomo, proiettato all'indietro nel tempo mano nella mano con uno spettro-fiammella, una saetta di luce che vola fino al villaggio del piccolo Scrooge, abbandonato in un college, solo ogni 24 dicembre e poi ragazzo innamorato ma che a lei preferì lui, il denaro.
I velocissimi cambi di scena, il punto di vista obliquo e trasversale, la sensazione di precipitare e di essere catapultati tra le stelle in questo semi-mondo (im)materiale ricorda l'esperienza del sogno, vertigine e spaesamento in un paesaggio di creature «senza organi». Il Natale presente è una specie di Santa Claus disneyano, gigante seduto su una montagna di dolci e leccornie, dalla fragorosa risata (come nella celebre Silly Symphony) e il Natale futuro è un'ombra silenziosa dagli artigli scheletrici, la Morte, che nasconde tra le sue vesti due bambini-mostri, lividi simboli di miseria e abbandono. L'avaro di fronte alle visioni lugubri della sua tomba deserta, del disprezzo e del turpe commercio dei suoi abiti «rinasce» nella nuova dimensione del presente, ed è tutto uno scampanellio di festa e di generosità. Il cinico capitalista di Dickens si tramuta nell'altruista che dispensa doni natalizi e spedisce un ragazzo con un tacchino gigante a casa dell'afflitto dipendente...Tim e Scrooge finalmente insieme.
A Christmas Carol è il primo film in motion capture realizzato in partnership con la Disney, con cui la ImageMovers di Zemeckis & soci (sede a Marin County, baia di San Francisco, accanto ai tecno-creativi Coppola, Lucas, Lasseter) ha stretto un accordo, e che nel 1983 aveva realizzato uno stupendo cartoon con Paperon de' Paperoni, personaggio ispirato proprio a Scrooge. Walt non poteva prevedere che i suoi esseri di inchiostro un giorno avrebbero avuto una pelle digitale e una esistenza reale, tanto che Hollywood, dopo aver premiato i film d'animazione con l'Oscar, è ora di fronte a un interrogativo: si può nominare «miglior attore» un essere dell'aldilà e dell'aldiqua? Sospeso tra la superficie sintetica e l'espressione umana, Jim Carrey fa trapelare da ogni immagine le vibrazioni emotive dei personaggi, qualcosa di travolgente che libera il cinema dai vincoli terreni. Anche A Christmas Carol di Zemeckis può competere con il film live e il cartone animato, di entrambi distilla le meraviglie e l'incanto.
sabato 28 novembre 2009
GREEN GRASS OF TUNNEL_mùm
visti ieri sera a Bari...
behind these two hills here
there's a pool
and when I'm swimming in through the tunnel...
I shut my eyes
(Il video èstato realizzato dal team di Joe Gerhardt e Ruth Jarman raccolto sotto la sigla Semiconductor)
behind these two hills here
there's a pool
and when I'm swimming in through the tunnel...
I shut my eyes
(Il video èstato realizzato dal team di Joe Gerhardt e Ruth Jarman raccolto sotto la sigla Semiconductor)
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giovedì 26 novembre 2009
I PADRONI DELLA NOTTE di James Gray
NEW YORK, UNA CITTA' NERO PECE di Giulia D'Agnolo Vallan (Il Manifesto, 14 marzo 2008)
Deve qualcosa a Friedkin (almeno al Friedkin de Il braccio violento della legge) James Gray, newyorkese anacronistico, amato da Chabrol e amante di melodrammi nero pece, che apre il suo terzo film, I padroni della notte, con un omaggio al grande fotografo della Magnum Leonard Freed (mancato l'anno scorso) e una selezione di scatti da uno dei suoi libri più belli, Police Work (1980). Quelle di Freed e di Gray sono le immagini di un dipartimento di polizia etnico e blue collar, un corpo sconquassato, in una città ingovernabile in piena recessione economica (ha un cameo nel film anche il sindaco della New York di quegli anni, Ed Koch, che interpreta se stesso), un mondo esclusivamente (e ottusamente) maschile, governato dalle leggi della famiglia (che sia quella di sangue, delle divise blu o della mafia russa) in cui ci si muove a bordo di macchine scassate e la giustizia ha un sapore biblico ma si improvvisa un po' così come viene.
Con una premessa da tragedia greca, Robert Duvall, capo della polizia, ha un figlio che gli lavora al fianco (Mark Walhberg) e uno che sta dall'altra parte (Joaquim Phoenix come Walhberg alla sua seconda collaborazione con il regista), gravitando (insieme alla fidanzata Eva Mendes) nei giri criminali importanti dall'ex Unione sovietica (in versione più casereccia di quelli raccontati da Cronenberg, ma altrettanto violenta). I padroni della notte è un'immersione totale nei luoghi della città, una New York anti-cartolina (Brighton Beach, Washington Heights, il lungomare fatiscente di Coney Island, l'antro cavernoso di Webster Hall...). I suo rituali etnici in via di estinzione, sradicati dalla gentrificazione del tessuto metropolitano. I personaggi che si materializzano dal buio e dalla pioggia per poi venirne reinghiottiti. Bellissima la scena dell'inseguimento in macchina. Barocco, eccessivo come un iperbolico melodramma criminale giapponese il finale tra le canne. Gray manca di ironia, di distanza (e quindi si espone facilmente alle critiche di chi patisce il machismo retrofascista dei suoi personaggi, i loro valori preistorici). In realtà, l'essere un occhio così «fuori moda» dà al suo cinema una ricchezza preziosa.
martedì 24 novembre 2009
INSIDE DEEP THROAT_Inside Gola Profonda
di Roberto Silvestri (Il Manifesto, 27 maggio 2005)
Trent'anni anni fa, improvvisamente tutti, tranne gli embrioni che sono caos di cellule, andarono a vedere Deep Throat (Gola profonda). Oggi un documentario gli rende il giusto omaggio, e la Mikado diffonde. È Inside Deep Throat, di Randy Barbato e Fenton Bailey, già a Sundance e Berlinale, che penetra i motivi segreti di un trionfo inaspettato (24 mila dollari di budget e 300 milioni di incassi) e racconta perché Gola profonda, blue movie di Gérard Damiano, star Linda Lovelace ('72), ha cambiato stile, senso e sesso dirigente del porno tradizionale. Certo, è vero che il film, e tutto l'«hard», è a gestione criminale. Ma, come scrisse la New York Review of Books, e spiega Camille Paglia nel doc, da quel momento «la pornografia divenne il più grande avvenimento artistico del decennio». Nel doc i preliminari sono i materiali di repertori e le interviste, l'acme orgasmico le dichiarazioni di Gérald Damiano e Harry Reems (la star, oggi mormone praticante, ma sempre spiritoso ammiratore del film). Intanto Gola profonda è tornato nelle sale Usa, nonostante il fluxus teocratico inquinante e, come allora, farà fare a tutti gli spettatori (si spera anche italiani) il giro della morte dell'immaginario. Scopriremo meglio cosa avesse di speciale rispetto ai due super porno, The Devil in Miss Jones, di Damiano (tra i 12 maggiori incassi del `73) e Behind the green door dei Mitchell Brothers ('72). E perché fu l'equivalente hard di un softcore di Russ Meyer. La trovata non fu un seno esplosivo, ma un clitoride in gola. Che rendeva acrobatica, quasi soffocante, anche se tecnicamente obbligatoria per la protagonista, la ricerca orale dell'orgasmo. Una bizzarria ginecologica che richiese virtuosismi interpretativi tecnicamente arditi. Li racconta Chuck Traynor (ex manager di Linda e poi marito della porno star Marilyn Chambers) nel libro di Jouffa e Crowley L'age d'or du film erotique et pornographique. Si trattava di rilassare un muscolo della gola che istintivamente si contrae davanti a oggetti estranei. Un'anomalia perversa da Cronenberg, e grondante ancor più senso dell'umorismo «controculturale» (anche se per ottenerlo furono impiegati metodi da Abu Ghraib). Però permise duplici, liberatorie soddisfazioni. Sia per la fantasia sessuale centrale del maschio, la fellatio, vissuta a quei tempi come un grande, ma disintegrabile tabù e dunque anche da sbeffeggiare e delocalizzare come sintesi di antiche gerarchie di potere sessuale. E, per l'«altra metà del cielo», Gola profonda svolse la funzione pedagogica, pop e femminista, di identificare e mettere in risalto quella zona erogena del corpo, oggetto trascurato del maschio distratto... Per questa sua bipartizan funzione divenne il più famoso hard del mondo e fece avanzare, in tutti i sensi, il «comune senso del pudore». Il suo titolo entrò nella Storia (fu la geniale talpa che distrusse Nixon nel caso Watergate), una t-shirt dell'epoca, molto venduta tra i reduci maschilisti, affermava: «Ho soffocato Linda Lovelace»; Leslie Nielsen, in Pallottola spuntata 2 ne agogna la scena madre: l'orgasmo multiplo in montaggio alternato a base di partenze di missili Apollo, fuochi d'artificio e campane. Ovvero le sensazioni e emozioni mancanti, che avevano portato una frustrata Linda Lovelace, su consiglio dell'amica Jenny, dal dottor Young, il sessuologo «reichiano» che le avrebbe salvato la vita. Il segreto del successo Gola profonda lo deve certamente all'originale regista, il parrucchiere di origine italiana (pseudonimo «Jerry Gerald») cui fu lasciata rara libertà d'azione. E che metteva l'occhio dappertutto (c'è perfino un carrello), tagliava e rimontava accoppiamenti e blow jobs (o french blow) integrali, senza preoccuparsi del culto dell'erezione, della sacra «continuity» degli atti, ossessione dall'85 in poi dei noiosi «gonzo movies» e «wall to wall» su cui ironizza l'ultimo Tsai Ming Liang. E così seppe creare, in 7 giorni di riprese a Miami, attraverso una sfrontata regia da b-movie, musica trascinante e spiritosa e un rosario di battute «camp», l'atmosfera buffa e giusta per portare chiunque nelle sale a luci rosse. Linda, poi militante femminista anche d'altro tipo, lo giudicò l'antidoto alla tv che «scodellava al pubblico teenager milioni di assassinii e montagne di odio assicurato, in prima serata, ma neanche una bella nottata d'amore integrale».
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domenica 22 novembre 2009
NEMICO PUBBLICO di Michael Mann
Dillinger, il kolossal della Depressione di Giulia D'Agnolo Vallan (Il Manifesto, 13 novembre 2009)
«Mi chiamo John Dillinger. Rapino banche». Evocando il leggendario «Mi chiamo John Ford. Faccio western», nel suo gigantesco, notturno e irrequieto nuovo kolossal, Michael Mann ci racconta un John Dillinger di poche parole, un killer spietato e malinconico, con l'occhio freddo di un serpente, avvolto di una calma piatta, minacciosa e con l'eleganza naturale di Johnny Depp. Un uomo che non teme nulla e nessuno, sorride pensando al mito di se stesso e perde la testa per una meticcia francese di nome Billie Frechette (Marion Cotillard). Il pericolo numero uno di Michael Mann ha poco a che vedere con la furia folle, quasi gioiosa, del Dillinger (Warren Oats) di John Milius. Nella sua monumentalità e nella grandiosità di un magnifico balletto a base di uomini in doppio petto e raffiche infuocate di proiettili Nemico pubblico risulta un film paradossalmente intimista.
Lavorando come ormai dai tempi di Collateral con un'orchestra di telecamere digitali sulla materia stessa delle tenebre e su quella che sembra ormai una sua sfida personale all'occhio del pubblico, Mann fa sempre più pensare a un espressionista astratto - il suo è un cinema di tratti, è un'esplorazione progressiva dell'inafferrabilità di se stesso. Così come è sceneggiato dallo stesso Mann, insieme a Ronan Bennett e Ann Biderman (da un libro di Bryan Burrogh), Nemico pubblico è materiale perfetto per questa ricerca.
Con poche ma bellissime inquadrature - il cielo immenso del Midwest che si staglia sopra un penitenziario all'inizio del film, o (fordianamente) dietro ai panni stesi di una casa povera, in cima a una collina, una donna che chiede ai banditi di portarla con sé... - Michael Mann traccia gli States della Depressione, quelli da cui è nato il grande cinema gangster hollywoodiano, insieme a rapinatori/leggende folk come Bonnie e Clyde, Dillinger, Baby Face Nelson, Pretty Boy Floyd, i Barker, e insieme al Federal Bureau of Investigation di Edgar Hoover, creato anche per eliminare quei criminali così pericolosamente vicini all'allure di eroi popolari. Sempre attento al dettaglio storico, nel suo film Mann tratteggia attraverso la parabola di Dillinger, e il progressivo interventismo della polizia federale, la fine dell'era (romantica) del gangster solitario e la crescita del crimine organizzato - alla fine anche la mafia volta le spalle al libero battitore Dillinger. In questo senso, per quanto sontuoso, Nemico pubblico ha in sé una traccia di elegia/energia proletaria. E fa non pochi riferimenti al western.
Fedele alle cronache del tempo, che gli permettono inoltre di riprendere la struttura del duetto/duello che aveva caratterizzato il rapporto tra poliziotto (Al Pacino) e criminale (Robert De Niro) in Heat, il regista di Miami Vice individua nell'agente federale Melvin Purvis (un impassibile Christian Bale eredita il ruolo che nel film di Milius fu di Ben Johnson) la nemesi del suo bandito. Giù a Washington, Edgar Hoover (Billy Crudup) è un politicante assetato di fama e di potere che usa l'Fbi per promuovere se stesso.
Più di tutto, lavorando sull'idea della caccia all'uomo e sulla struttura delle fuga, Nemico pubblico è uno studio sul movimento: rapine che durano meno di due minuti, frenetiche corse in macchina nel buio, convulsamente striato dalla luce arancione delle raffiche di mitragliatrice. La fine della storia di Dillinger si sa, fu ucciso da Purvis e dai suoi in un agguato, all'uscita di un cinema dove proiettavano Manhattan Melodrama, un gangster movie atipico, diretto da W.S Van Dyke su due amici d'infanzia, William Powell e Clark Gable, che finiscono da due parti opposte della legge. È nel buio di quella sala che si consuma la scena più bella del film, nei campi e controcampi tra il primo piano di Dillinger e, sullo schermo, quelli di Gable e Myrna Loy. In quella poche inquadrature c'è tutto il potere straordinario del cinema.
giovedì 12 novembre 2009
UN'ALTRA GIOVINEZZA di Francis Ford Coppola (2007)
Il sogno d'una rosa di Alessandro Cappabianca (Filmcritica, n. 579, novembre 2007)
Nel film di Coppola del 1986, Peggy Sue tornava indietro nel tempo, in seguito a uno svenimento durante una festa, ringiovanendo, mi pare, di venticinque anni. Più o meno di quanto ringiovanisce il settantenne rumeno, Dominic Matei, studioso di linguistica, colpito (nella Bucarest del 1938) da un fulmine che avrebbe dovuto incenerirlo, del quale invece assorbe miracolosamente la spaventosa energia: per cui non solo torna un quarantenne di bell’aspetto (e molte donne si interessano di nuovo a lui), ma acquista un tale potenziamento anche delle sue capacità psichiche da essere capace di assimilare il contenuto d’un libro solo prendendolo in mano e di imparare alla perfezione il cinese e altre lingue più antiche e oscure (tipo sanscrito) in brevissimo tempo.
Si può dire che diventa un Superuomo? É quanto pensano i nazisti, che nel frattempo hanno invaso la Romania, e intendono rapire Dominic per compiere esperimenti (più o meno diabolici) su di lui.
Per noi, un Superuomo non lo è di sicuro, per quanto sia in grado, con la sola forza della volontà, di rivolgere la canna d’una pistola contro chi gliela punta addosso. Qualcosa di angoscioso, il ricordo d’un trauma non sanato (l’abbandono, tanti anni prima, da parte di Laura, suo unico grande amore), continua a tormentarlo, fin dal sogno inquietante (se sogno è) d’inizio film (sui titoli di testa), dove vediamo scorrere e incastrarsi gli ingranaggi meccanici, mille volte ingranditi, d’un orologio che è l’orologio del tempo e del rimpianto, vecchio dono di Laura in pegno di fedeltà eterna, le cui lancette, però, scorrono ormai rapidamente e inesorabilmente in senso antiorario.
Coppola pone dunque subito il film nel segno del tempo rovesciato, i cui paradossi ci stupiscono, ma la cui rappresentazione può aver luogo solo attraverso la messinscena d’uno spazio rovesciato. Voglio dire: Un’altra giovinezza non è, non può e non vuole essere, un film palindromo, come era p.e. Le couple di R. Ruiz (1980), anch’esso, guarda caso, dedicato alle vicissitudini d’una coppia di amanti - film in grado di cambiare senso a seconda che venga proiettato “normalmente” o “alla rovescia” (ma si pone subito il problema, allora, di quale sia da considerare la proiezione “normale”). In Un’altra giovinezza, peraltro, ci ricordano Ruiz certe inquadrature della bocca di Dominic, dalla quale cadono i vecchi denti per far posto ai nuovi, appena spuntati, in una sequenza che, tra l’altro, sembra mettere tra parentesi la vecchia idea freudiana dell’ossessione di perdere i denti come angoscia di castrazione.
Tuttavia, la diegesi del film di Coppola non può che procedere in avanti – il tempo non è proiettabile al contrario, se non mentalmente, o col ritorno inopinato di certi personaggi (prima di tutto Laura, reincarnata in Veronica). La metempsicosi, al limite, resta un espediente, in base alle suggestioni del romanzo d’uno storico delle religioni come Mircea Elide (ma qui si può forse reperire qualche lontana eco della Doppia vita di Veronica di Kieslowski). L’avvicinamento al proto-linguaggio, al momento originario del logos, alla prima dominazione delle cose, alla più antica espressione verbale strutturata, in fondo rimane il sogno non realizzato di Dominic, malgrado alcuni brevi frammenti pronunciati da Veronica durante uno di quegli stati di “estasi mistica” che lentamente l’uccidono, cui Dominic decide di porre termine, abbandonandola, poiché l’ama, per salvarle la vita (così come Laura, per amore, aveva abbandonato lui).
E’ lo spazio rovesciato allora, o meglio, il rapporto rovesciato tra macchina da presa e spazio, a rappresentare il rovesciamento del tempo, spesso attraverso un’operazione letterale, esplicita, di inquadrature riprese a macchina non solo obliqua, ma completamente rovesciata. Operazione esplicita, sì, ma i cui esiti risultano tutt’altro che risaputi: non è solo che il basso diventi l’alto, e viceversa – sono sconvolti i nostri stessi codici di riconoscimento, si confondono le coordinate, si perdono i riferimenti.
Sta qui, a mio parere, lo spessore filosofico del film di Coppola, nella perdita dell’automaticità della percezione, dei suoi stessi a-priori (e di conseguenza dell’andar-da-sé del soggetto), non nei filosofemi da orientalistica in pillole.
Dolore, perdita, rimpianto, memoria. Vecchi album di fotografie che dovrebbero confermare/ricordare il passato, e inopinatamente, invece, non fanno che smentirlo. Ambiguità di Mnemosyne. Tempi incrociati. Parallele che si incontrano. Ripetizioni e differenze. Sogno della farfalla. Sogno della rosa, il centro del cui bocciolo somiglia a un occhio scolpito nella roccia.
Film come sogno, infine. Prima di addormentarsi (o riaddormentarsi?) sulla neve, stavolta davvero per sempre, di nuovo a Bucarest (ma l’aveva poi mai davvero lasciata?), Dominic ha reicontrato i suoi vecchi amici, i colleghi del liceo, che festeggiano il suo ritorno (ritorno?). Li incontra o li sogna? Forse anche loro sono morti, come i vecchi scrittori colleghi del protagonista di Dias da campo di Ruiz, seduti ai tavoli di un bar di Santiago, invece che, come accade qui, a quelli oscuri e un poco malinconici, ma ugualmente incantati, d’un Caffè mitteleuropeo.
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lunedì 9 novembre 2009
LACRIMAZIONI 1.0
giovedì 5 novembre 2009
OUT OF TIME_Blur
Il video è realizzato da John Hardwick con immagini tratte da un reportage della BBC che documenta la vita su una portaerei Usa nel Golfo.
Where's the love song?
To set us free
Too many people down
Everything turning the wrong way around
And I don't know what love will be
But if we start dreaming now
Lord knows we'll never leave the clouds
And you've been so busy lately
that you haven't found the time
To open up your mind
And watch the world spinning gently out of time
Feel the sunshine on your face
It's in a computer now
Gone to the future, way out in space
And you've been so busy lately
that you haven't found the time
To open up your mind
And watch the world spinning gently out of time
And you've been so busy lately
that you haven't found the time
To open up your mind
And watch the world spinning gently out of time
Tell me I'm not dreaming but are we out of time?
(We're) out of time
Out of time
Where's the love song?
To set us free
Too many people down
Everything turning the wrong way around
And I don't know what love will be
But if we start dreaming now
Lord knows we'll never leave the clouds
And you've been so busy lately
that you haven't found the time
To open up your mind
And watch the world spinning gently out of time
Feel the sunshine on your face
It's in a computer now
Gone to the future, way out in space
And you've been so busy lately
that you haven't found the time
To open up your mind
And watch the world spinning gently out of time
And you've been so busy lately
that you haven't found the time
To open up your mind
And watch the world spinning gently out of time
Tell me I'm not dreaming but are we out of time?
(We're) out of time
Out of time
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martedì 3 novembre 2009
PARNASSUS - L'UOMO CHE VOLEVA INGANNARE IL DIAVOLO di Terry Gilliam
Heath Hedger, l'ultima magia del Dr. Parnassus di Mariuccia Ciotta (Il Manifesto, 23 ottobre 2009)
Terry Gilliam, il regista nato a Minneapolis nel 1940, ma sulfureo suddito di sua maestà britannica, ha fatto esplodere Cannes 2009 di fuochi d'artificio visivi, un carosello delle meraviglie, il luccichio della magia coniugato agli stracci dei vagabondi, quelli di Fisher King saliti sul carrozzone di Pinocchio e diretto verso un immenso Luna Park.
Siamo sul set di Méliès, tra sbuffi di fumo, piume, maschere, nani e ballerine... A bordo del teatro ambulante del Dr. Parnassus (sublime Christopher Plummer) che battè al gioco il diavolo, Mister Nick (Tom Waits) e vinse l'immortalità, ma poi, incontrato l'amore, avendo l'età di mille anni, preferì la giovinezza e in cambio promise al demonio sua figlia Valentina (Lily Cole), faccia candida a cuore, allo scoccar dei 16 anni.
Lo scricchiolante vagone mobile nasconde un passaggio segreto, uno specchio fatato che dà su un mondo immaginario, fantasmagorico, lisergico e pericoloso come la «fabbrica di cioccolata di Willie Wonka» e la sua Las Vegas paranoica, abitato da illustrazioni vive dell'Ottocento, scarpe gigantesche, prati infiniti, un fiume, e ogni tipo di leccornie. Un mondo «ai confini della realtà» che fa da contrappunto alla periferia londinese, miserabile accozzaglia di senzatetto, di giacigli e mendicanti, un panorama dickensiano che solo un sipario di velluto rosso divide dall'al di là. Mister Nick reclama la sua giovane preda e tormenta il Dottor Parnassus, pentito, deciso a battere al gioco il suo «diavolo custode» e mette in atto sortilegi spettacolari, un «paese dei balocchi» color pastello da illusionista pazzo, un paradiso per ogni gusto, il regno del mago di Oz con le sue creature cangianti. Ma l'inferno è vicino e canta la sua canzone lugubre.
Lo specchio magico sarà violato dalla realtà extra-schermica, da un'ombra fuori quadro che dà i brividi, il fantasma di Heath Ledger, il giovane attore consacrato dall'Oscar postumo per The Dark Knight. La sua morte a metà lavorazione ha fatto del suo personaggio un essere cangiante che prende i connotati di Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell. Una metamorfosi più violenta di ogni travestimento.
Apparizione funebre, Ledger entra in scena impiccato sotto un ponte di Londra («ho pensato a Roberto Calvi», il presidente del Banco Ambrosiano appeso a una corda sotto il ponte dei Frati Neri, ha detto Gilliam) ma il cinema lo resuscita, anzi lo fa vivere in eterno come recita Johnny Depp in un bellissimo monologo sui veri immortali, i divi, che «non saranno mai né poveri né malati né vecchi, ma per sempre giovani e belli».
La favola del regista dei Monty Python gioca sul doppio, il bene e il male complici, la città moderna con le vetrine alla moda e il pozzo profondo dell'immaginazione, al di là del sipario tutto è possibile, dietro la maschera non c'è mai la fine, la storia continua «contro la narrazione piena di menzogne della realtà», ed è la forza vitale dell'impossibile che fa girare il mondo.
lunedì 2 novembre 2009
CENTRAL PARK di Frederick Wiseman (1989)
VEDERE E GUARDARE di Marina Delvecchio (Filmcritica, n. 590, dic. 2008)
Ciò che differenzia il documentario dalla finzione non è una questione di natura, bensì di forma, cioè “immagine” come separazione e manifestazione (Eizenstejn) e come “formazione della mente per sintesi di dettagli parziali privi di senso comune, che lo acquistano nel momento in cui vengono collegati in una struttura interiore”.
È per questo che il documentario è stato definito un “cinema di chiarificazione”, un avvenire, cioè, della finzione, che la rinnova senza sosta fuori dagli obblighi di una sceneggiatura già scritta. Il reale, infatti, non è un’evidenza che si dà semplicemente davanti alla macchina da presa ma è legato al modo in cui viene percepito, colto, da chi guarda ed inseparabile dalla mediazione attraverso la quale lo si coglie. Non basta collocare la cinepresa di fronte ad un evento. Vedere in sé non è una prova né un’esperienza – come dice la protagonista di Hiroshima mon amour: “Tu n’a rien vu”.
Il film, allora, passa innanzitutto attraverso l’impegno fisico del suo autore che restituisce un’esperienza singolare del mondo. È per questo che il documentarista percorre il mondo per sentire il polso del pianeta, alla ricerca innanzitutto di un rapporto con esso. Gli assi di questo spostamento danno forma al film e lo ridefiniscono non tanto come coscienza percettiva, quanto come esperienza poetica aperta ai mutamenti, presa di coscienza dei molteplici livelli di realtà del mondo. Filmare diventa un gesto politico, legato ad un’inquietudine, che si propone di mettere in discussione le evidenze e decostruire il posto di ciascuno nel mondo attraverso un’esplorazione dei suoi aspetti più impensati. È proprio questo che caratterizza il cinema di Frederick Wiseman: un’immagine la cui forma restituisca un rapporto col mondo e che ne esplori senza ipocrisie le contraddizioni.
Da Titcut Follies (1967) a State Legislature (2007), Wiseman non si concede che uno o due giorni di ricerche laddove altri si fermano mesi, anche anni. Gira dalle quattro alle dodici settimane: mentre lui registra il suono, un operatore riprende le immagini. Non segue la storia di un solo personaggio, ma piuttosto le istituzioni e come in esse si riproducano i ruoli sociali, eppure la sua macchina da presa è reattiva ad ogni tremore, pronta a cogliere con lo zoom il più piccolo gesto facendo attenzione, come Joaquin Jordà, innanzitutto alle persone.
Filmare, infatti, richiede tempo. Come Depardon o Philibert, Wiseman vive al ritmo di ciò che riprende, si colloca all’altezza di chi osserva, per cogliere i fili invisibili che collegano fra loro gli individui. Il cinema diretto è questa compresenza del cineasta e di ciò che filma: come nel caso di Jean Rouch, partecipe della realtà fino ad appartenere all’evento stesso, ad essere parte del rito che si è proposto di filmare. Tuttavia ciò che ne risulta non è una semplice fusione, bensì la tensione del presente colto nel suo emergere. Il reale non è più una scena che si svolge di fronte allo spettatore, perché la macchina da presa si trova ora al centro dell’avvenimento. Filmare senza sceneggiatura obbliga a definire il proprio modo di agire e ad essere aperti al miracolo dell’imprevisto, alla “grazia” che rende visibile l’invisibile. È l’avventura delle riprese, sciolte dall’obbligo della sceneggiatura, che restituisce al documentario linfa vitale. Filmare, dunque, vuol dire soprattutto intessere una relazione, essere attento alla particolarità del momento. La macchina da presa diventa un mezzo di confronto e strumento attraverso il quale avviene un incontro, emerge la parola degli esseri umani strappati alle masse grigie e restituiti all’individualità dei loro desideri nascosti.
Il cinema di Frederick Wiseman è il campo di esercizio di questa inquietudine in movimento: non parla dall’alto ma a filo dell’inquadratura, non fa sfoggio di sapere più di quello che mostra passo passo, immerso nel tempo, filmando l’istante nel suo fremito. Il suo punto di vista non è mai anteriore ai fatti, ma emerge piuttosto al montaggio, momento in cui ricostruisce non tanto una narrazione, quanto quei collegamenti e quella “finzione” all’interno delle immagini documentarie. Non interviene né commenta mai, chiede solo il permesso di filmare: tutto quello che avviene nei suoi film è reale, non è mai stato provocato, neanche un po’, eppure i suoi protagonisti sembrano usciti da una pièce di Samuel Beckett.
L’assenza di un commento in voce off lo obbliga ancor più ad essere presente alle persone che filma, sensibile alla loro presenza. Ecco allora che l’esercizio cinematografico diventa sempre più un fatto fisico e il solo linguaggio che conta è quello del corpo: l’altro “non è più dietro un vetro ma nello stesso spazio e tempo” del regista, attento alla particolarità del momento e alla sua “frattura” (Bazin). Se si distinguono guardare e vedere come due modi di rapportarsi a ciò che si filma, il primo “senza finalità pratiche e scopritore di aspetti inconsueti”, mentre il secondo teso invece “a una definizione dell’oggetto, a una sua collocazione dentro gli stereotipi della conoscenza, dell’utilità” (Bernardi), è senz’altro al primo modo che si riferisce il cinema di Wiseman.
Se l’informazione è ridotta a pura registrazione, ad enunciati che elidono i raccordi tra i fatti, compito del documentarista è proprio quello di interpretare, per usare una distinzione cara a Jordà, di creare una rappresentazione unendo tra loro i piani: capire da dove vengono i fatti e cosa mettono in moto, senza però accompagnarli con un commento incombente, recuperare le connessioni e le assenze che ci appartengono e ci animano come esseri umani.
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venerdì 30 ottobre 2009
DIMENSIONS OF DIALOGUE di Jan Svankmajer (1982)
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giovedì 29 ottobre 2009
CHE di Steven Soderbergh
CHE (FARE) CONTRO L'ICONA di Lorenzo Esposito (Filmcritica, n.595, maggio 2009)
L’eclettismo di Steven Soderbergh, interessante di per sé per le deviazioni, i ritagli e i salti di campo che origina (epigoni, ormai un po’ ovunque, compresi), non smette tuttavia di accentrarsi attorno alla questione della tecnica. Sia chiaro, nessuna preoccupazione tecnologica, ma una passione sistematica per il traffico di formati e grane, per il frull frontal della storia dell’occhio. Come tutte le simmetrie inestricabili, questa storia dissemina rilievi e creste, tessuti filiformi e brusche irregolarità, sezioni trasversali e distese cesellate – Kafka e Out of Sight, Underneath e Traffic, Solaris e la serie Ocean. Finchè, impattando la Storia (Che, ma anche The Good German, a sua volta immediatamente simmetrico), ne riconosce l’eterna modularità affrancata dal ritmo, l’incedere di processione immobile.
Senza troppa fatica, si pensa al Rossellini televisivo. E non solo televisivo: le bianche facciate di Santa Clara e la battaglia spigolo a spigolo rasente le mura sono quasi la Firenze di Paisà. Si percepisce cioè quell’attitudine a fare del film un’unica domanda sul guardare, sulla fragilità e sulla potenza insieme di ciò che viene creduto e detto contemporaneo. L’immagine prima del cinema, l’immagine strappata alle consuetudini del filmare, pur iscritta sullo stesso asse (solo per caso film), si trasforma con così rapida inavvertenza che sovente due tagli successivi non hanno più molto in comune (a prima vista..), ma proprio perché allo stesso tempo lo sguardo ricostruisce senza fatica il gioco delle trasformazioni (o movimento). È per questo che il Che cubano si smembra con naturalezza nell’andirivieni del tempo e quello boliviano fila cupo e ossessivo verso la morte: anche quando è evidente lo sforzo di cambiare regime o di fingere il tourbillon di interessi e film differenti, Soderbergh ricorda che la storia dell’occhio è anzitutto illusione di vedere. Lo sa anche Guevara, che dopo la vittoria a Santa Clara fa presente a un compagno e a se stesso: “Questa è solo la guerra, la rivoluzione comincia ora”, cancellando la tipica tentazione dell’umano a farsi illustrativo e rappresentativo. Il Che di Soderbergh, come Socrate Cartesio o Pascal, conduce un’aspra battaglia contro gli orpelli stilistici e figurativi, cercando piuttosto la verità in ciò che automaticamente e tragicamente sfugge all’occhio, giungendo a far coincidere la lotta per la sopravvivenza con questa inadeguatezza, con la necessità lacunosa del vedere.
Il corpo si fa glorioso quando è capace di sparire. Ecco perché Soderbergh inquadra di taglio e di schiena il suo eroe, prosciugandolo d’ogni mitologia, costringendo lo spettatore a disfarsi della storia iconologica sottesa e galleggiando infine nei vuoti e nelle attese, nelle marce estenuanti, nella statica paradossale delle rivoluzioni (se volete fare i rivoluzionari procuratevi un buon sigaro con cui occupare il silenzio e l’attesa, scriveva Guevara nel suo diario boliviano). Il mito di un nuovo mondo si mostra un po’ più claudicante e asmatico del business fotografico perfetto che da decenni ha permesso al potere di disinnescare la figura politica del Che (sarà per questo che per lungo tempo Soderbergh ha pregato Terrence Malick di girare il film, convincendosi infine a fare da solo; mentre lo stesso Malick sembrava aver intuito questo punto, lanciandosi in ricerche fluviali e certosine senza mai decidersi a filmare).
La verità è che anche Soderbergh non fa altro che accumulare la/le histoire(s) delle immagini (non più del cinema). Decifra misura cataloga i flussi e le curve d’intensità depurandole e insieme estraendole dal fondo. Si inserisce nei lembi del tempo e ne fa dei sintomi di ciò che perdura nell’accavallarsi e intrecciarsi delle storie umane. Studiare queste immagini, fingere di diffonderle nello spettro variabile del film, significa studiare il modo in cui si instaura, attraverso l’immagine, il tempo stesso dei corpi. George Clooney, Benicio Del Toro. Pellicola, digitale. Digitale che cerca l’effetto pellicola. Colore, bianco e nero. Cieli tersi e sgranature video. Cos’altro sono questi reticoli se non il regime discontinuo del tempo e dello spazio (ben prima della discrezione e discontinuità della tecnologia), l’organicità fatta di ripetizioni e rimozioni, di segnalazioni e di impronte (le tracce che un guerrigliero deve fare attenzione a non lasciare!). La regola della guerriglia è movimento movimento movimento, fino a diventare invisibili e insieme dare l’illusione di essere ovunque e in gran numero, di essere un unico spettrale falso movimento. Che è un film contro l’azione (ma non lento, come ingenuamente si è scritto), allo stesso modo in cui non esiste storia univoca, ma una genalogia delle latenze, dei buchi, delle imperfezioni. Solo scorgendo quanto moto c’è nella stasi (nella fermezza) Ernesto ‘Che’ Guevara ha potuto, per dirla in termini ruiziani, lasciare il Ministero per il Mistero, ha potuto decidere di vedere a occhi chiusi, mentre il film della vita si fa da sé.
E allora il blocco boliviano è un altro Solaris. Raggio verde che nasconde nella boscaglia il tentativo delle immagini dimenticate di aggrapparsi al ricordo, di inventarsi un doppio, di moltiplicarsi, di resuscitare. Tentare di fermare il tempo (“Ho trentanove anni, la mia carriera di rivoluzionario è al capolinea”), provando a raggiungere la propria immagine già fantasma col sogno ancora di modificarla, ben sapendo che l’icona perfetta si avvicina al nulla (come insegnano Pavel Florenskij e Andrei Tarkovskij). Essere sempre sul punto di annullarsi e cancellarsi. Cercare il tono sommesso di un’eroica dismissione. Come il rivoluzionario, Soderbergh sa che l’immagine deve resistere a se stessa, essere inadattabile, combattere il proprio potere.
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lunedì 26 ottobre 2009
ONE PLUS ONE - SYMPATHY FOR THE DEVIL di Jean-Luc Godard
“Quello che mi interessava era proprio questo: dividere in due. Mi ricordo che così era in tutti i film che tentavo di fare a quell’epoca e di cui solo questo è stato finito… Il soggetto era questo: da un lato c’era One – cioè i Rolling Stones – e di fronte c’ero io. Questo faceva dunque One plus One. Uno più uno, che era un modo per cercare di fare due. Ma poi mi sono accorto, dopo, che fra due cose ci deve essere sempre un’altra cosa, cioè quel più o quel meno. Non è mai solo due; è tre o… E’ sempre tre. E proprio per questo il film che facevo non era un film era solo one più one, diciamo così. E non arrivava a essere una parità, quel più che mi escludeva non diventava… Cioè in quel film non ci pensavo. Erano solo, appunto, alcuni elementi”. (Jean-Luc Godard, Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti 1982)
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DARKNESS, LIGHT, DARKNESS di Jan Svankmajer
Uno dei tanti capolavori del maestro dell'animazione Jan Svenkmajer. Parte dei suoi lavori è stata pubblicata in Italia in un dvd edito da Rarovideo.
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sabato 24 ottobre 2009
GRAZIANO STAINO vs AFTERHUORS_Musa di Nessuno
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venerdì 23 ottobre 2009
TANGO di Zbig Rybczynski
"Thirty-six characters from different stages of life - representations of different times - interact in one room, moving in loops, observed by a static camera. I had to draw and paint about 16.000 cell-mattes, and make several hundred thousand exposures on an optical printer. It took a full seven months, sixteen hours per day, to make the piece. The miracle is that the negative got through the process with only minor damage, and I made less than one hundred mathematical mistakes out of several hundred thousand possibilities. In the final result, there are plenty of flaws black lines are visible around humans, jitters caused by the instability of film material resulting from film perforation and elasticity of celluloid, changes of colour caused by the fluctuation in colour temperature of the projector bulb and, inevitably, dirt, grain and scratches.”
Zbig Rybczynski, "Looking to the Future - Imagining the Truth” in FranÐois Penz, Maureen Thomas, Cinema& Architecture. Mþliús, Mallet-Stevens, Multimedia, BFI, London, 1997.
www.zbigvision.com
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martedì 23 giugno 2009
IL GRANDE SILENZIO di Philip Groning
Philip Gröning aveva in mente questo film dall'84, si data allora infatti il primo incontro del regista tedesco (originario di Düsseldorf) con il priore generale della Grande Chartreuse, la casa madre dell'ordine dei certosini considerato il più rigido tra le confraternite nella chiesa cattolica. Nessun visitatore né turista è ammesso nel monastero sulle alpi francesi vicino Grenoble e Chambéry, i monaci osservano l'ordine del silenzio, vivono in povertà, dormono in celle, il quotidiano è scandito dalla preghiera e dal lavoro nella negazione di ogni spazio individuale che non sia, appunto, quello delle celle. Nel monastero non ci sono radio e televisione, i fatti del mondo sono comunicati dal priore mentre i monaci tranne che per questioni di lavoro, parlano tra loro attraverso biglietti deposti in una grande scatola. Solo una volta a settimana possono uscire dal monastero per una passeggiata che è lo spazio della parola. I familiari sono ammessi due volte l'anno. Come girare un film in queste condizioni? E soprattutto che tipo di film, che immagini capaci di confrontarsi con un altrove così remoto senza essere invasive o superficiali? L'ordine risale a quasi mille anni fa (lo fondò san Bruno da Cologne nel 1084), non ha mai cambiato regole, i monaci vivono in una specie di non tempo. Dopo vent'anni, e una relazione di fiducia reciproca, Gröning riceve dal priore il permesso di girare, il contratto stabilisce che per almeno sette anni nessuno potrà più entrare con una macchina da presa nel monastero. Nasce così Die Grösse Stille, Il grande silenzio, presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, e in questi giorni anche sugli schermi dell'Infinity festival di Alba nella personale dedicata al regista, che esce ora in sala. Il risultato di un lavoro lunghissimo, Gröning vive cinque mesi nel monastero da solo, il permesso non includeva la troupe, seguendo la stessa modulazione esistenziale dei monaci: il sonno notturno interrotto spesso dalla preghiera, la campana che scandisce i gesti, il lavoro in giardino, i piatti, le faccende, e poi ancora la preghiera, nove momenti intorno ai quali ruota tutta la vita del convento. E la solitudine ma soprattutto il silenzio che è il vero protagonista di questo film i cui «dialoghi» sono i sussurri di preghiera, le campane, il rumore del vento, delle foglie, dei passi ... L'occhio raddoppiato in digitale del regista si introduce tra le mura secolari a inquadrare i monaci, spesso quasi fuggevolmente tra cerimonie, vestizioni, le tuniche tagliate da grandi forbici sui tavoli di legno,la meditazione, le fiammelle delle candele, i libri sacri sfogliati con lentezza. E, ancora, il silenzio che è insieme esclusione dal mondo, una distanza scelta e perseguita con estremismo radicale intorno alla quale si concentra l'interrogativo del regista: cosa spinge a questo? Cosa significa, in che modo tutto questo può condurre a Dio? Domande che diventano anche dello spettatore, Gröning infatti non offre spiegazioni, non è un film su Dio Il grande silenzio, l'orizzonte appartiene a chi guarda (e a cosa crede in quel momento). Il punto di partenza è un po' la stessa idea su cui ha lavorato Alina Marazzi nel suo ultimo Per sempre, indagine sulle suore di clausura, ma spinta ancora più in avanti, senza cercare come fa invece la cineasta milanese alcuna relazione con i protagonisti. Non c'è infatti un solo dialogo coi monaci, se ne rispecchia la vita e le ragioni restano lì, sospese nel rito e nel tempo che per loro è il battito della campana di lavoro/meditazione diventando nelle immagini il flusso delle stagioni e il flusso del cinema. Die Grosse stille è un sorprendente film sul cinema, sulla sua essenza profonda di tempo e durata, e su quel mistero che è la materia stessa di ogni fotogramma e il suo corpo a corpo di potenza con la realtà.
Cristina Piccino, Il Manifesto, 31 marzo 2006
domenica 1 febbraio 2009
Nature is ancient_BJORK VIDEOGRAPHY_9
Un altro splendido video di Bjork, girato da LYNN FOX, gruppo di videoartisti di cui ci siamo già occupati qualche post fa.
venerdì 16 gennaio 2009
LA POLITICA DELLE IMMAGINI
Di seguito l'intervento di Giulietto Chiesa al convegno "Cinema e politica", tenutosi negli scorsi giorni a Roma, organizzato dall'Università degli Studi Roma Tre. Un interessante squarcio sull'uso delle immagini ad opera dell'establishment politico mondiale e sui condizionamenti delle stesse sul nostro immaginario globale.
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